Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

sabato 17 dicembre 2011

Polvere


Dalla breccia negli scuri
Segui il volteggiare flautato
Di quel granello di polvere.

Minuscolo, quasi confuso
Con altri mille. Sorridi con ironia:
Un’esistenza legata solo
Alla luce, ai raggi impertinenti.

Non sai ancora che poi
Nel buio silenzioso della tua mente
Negli anfratti nascosti di ciò che sei
Si unirà ad altri
Correrà avviluppato ad essi
Sarà velo ai tuoi occhi
Orizzonte dei tuoi pensieri.

8 maggio 2010

mercoledì 7 dicembre 2011

PRESENTAZIONE DEL FONDO ARCHIVISTICO "DANIELE ANTIGA

    • giovedì 15 dicembre 2011 ore 14.30
      Sala Consiliare di Susegana (TV)  

  •  
    SPI CGIL E AMMINISTRAZIONE COMUNALE DI SUSEGANA
    Presentano
    Riordino e Inventario del Fondo Archivistico "Daniele Antiga"
    "Le carte che lui ci ha lasciato abbracciano tutta la sua attività politica, amministrativa e sindacale, vale a dire gli ultimi 30-40 anni della storia di Susegana"
    Introduzione
    Adriano Da Ronch - Segretario SPI CGIL Susegana
    Saluti
    Gianni Montesel - Sindaco di Susegana
    Relazione
    Isabella Gianelloni - Curatrice dell'Inventario
    Intervento
    Domenico Cirielli - Ex Sindaco di Susegana
    Conclusioni
    Pierluigi Cacco - Segretario Generale SPI CGIL Treviso

lunedì 5 dicembre 2011

Qualche ora al Teatro Accademico

Poco alla volta la voce della lettrice sfuma, le parole si perdono e fluttuando compongono solo un suono, ora debole ora più forte, scandito.
Lo sguardo vaga, rapito da cornucopie floreali, graziosi mazzi messi lì a fare occhiolino grazioso tra ghirigori dorati, tra cetre e fasci di grano, lo svago e la fatica.
Un omaggio al lavoro, forse? O piuttosto il tentativo di interpretare, onorare ciò che per molti era dura fatica di vivere e per loro idea quasi sconosciuta, osservata magari nell'ovatta di un tempo di musica e poesia.
Li vedo, seduti o mollemente accomodati fra i palchi, testimoni oggi muti e rispettati in una memoria che li confonde eliminando le individualità, le singole miserie umane, magari le altezze della scienza e della conoscenza.
Miracolo di un'antica eleganza, di secoli paurosi ma che oggi vagheggiamo, noi che sentiamo la presenza collettiva degli austeri nomi dipinti sul soffitto, noi nuovi opulenti orfani di grazia, ricchi ma poveri nel cogliere davvero ciò che conta, ciò che vorremmo ma non è più.
Castelfranco Veneto, 3 dicembre 2011

lunedì 14 novembre 2011

Trieste....

Il ritorno a Trieste, dopo la guerra, fu forse il suo vero, primo choc. Le pesanti occhiaie di sua madre, l’angoscia che la attanagliava erano chiari segnali di un dolore profondo, sordo, che né la lontananza né tantomeno il ritorno potevano placare. Qualche anno dopo avrebbe compreso più a fondo ma in quei mesi la colpa di tutta quella sofferenza doveva ricadere per forza sul non ritorno di suo padre, quel Giorgio che la mamma nominava di continuo, lacerandosi ogni volta di più, disperandosi della propria solitudine. Era tornato prima lo zio Mario, poi, per fortuna, la mamma aveva potuto riabbracciare suo fratello Vladimiro. Tea si avviava all’adolescenza in una città ancora incerta, incredula di tanti morti, da una parte e dall’altra, pronunciando il suo nome. La bora sferzava gli scogli di Miramare, l’insenatura di Duino e l’intera città incurante del destino delle pietre sottostanti, insensibile alla paura degli esseri umani; la corrente davanti al porto pareva andare diritta verso la costa di fronte, dall’altra parte del golfo, con naturalezza, senza bisogno di proclami o di lasciapassare. Trieste libera, a lei così giovane, sembrava una frase quasi senza senso: libera perché, libera da cosa, o meglio, cosa se non libera?

martedì 1 novembre 2011

Vi consiglio questo libro

Mosso dalla confessione di Argia e da una polmonite galoppante che il dottor Poldi si incaricò di curare con impiastri di senape, l'ingravidatore misterioso sbucò dal fienile dove per molti giorni si era rintanato; dichiarò di chiamarsi Leonida, di avere trentadue anni e di fare il tipografo: mestiere totalmente ignoto ai genitori di Argia, ma da essi supposto incompatibile o perlomeno estraneo all'agricoltura; disse di venire da una città della Toscana che pareva di mitica lontananza, ma che in realtà distava un centinaio di chilometri; si guardò bene dal confessare i motivi che lo avevano indotto a tuffarsi nel gelido torrente sul quale si arrestava il confine del suo stato.
Tratto da: Antonio Tabucchi, Il piccolo naviglio, Feltrinelli, 2011

domenica 23 ottobre 2011

Tea gli dice addio

Bruno, silenzioso, rientrò con lei, cenarono senza parlare, scrutando uno negli occhi dell’altra i pensieri, i timori, le certezze amare.
Nel freddo di quella notte parigina stettero abbracciati nel letto, l’amore venne anch’esso in punta di piedi, senza clamore, velato di disperata malinconia.
Nei giorni seguenti Bruno preparò la partenza per la Spagna: Tea si muoveva come un automa, senza più chiedere nulla, senza porsi domande alle quali non avrebbe saputo dare risposte, se non ferite sempre più profonde.
Spartaco rifiutava di rivederla.
Tea era sola, ancora una volta sola.
Il freddo era pungente, l’aria umida era simile a tanti aghi che si conficcavano nel viso triste di Tea che camminava accanto a Bruno, sfiorandogli la mano intirizzita.
Camminarono per un tempo reso lunghissimo dalle pause rubate per un abbraccio, un bacio lungo la strada: ricordavano le loro passeggiate allegre, pensarono al loro primo incontro svizzero, alla redingote consunta diventata giacca, alla leggerezza del loro amore. Tutto, forse, stava per finire, immolato sull’altare della guerra senza frontiere, della lotta disperata contro il fascismo, contro Francisco Franco, contro l’agghiacciante minaccia nazista.
Bruno partiva col cuore gonfio di tristezza per il loro amore ma convinto di andare a difendere un sogno.
Tea rimaneva a Parigi, senza il suo uomo e senza l’amore di suo figlio. Abbandonata un’altra volta.
Quando il convoglio di Bruno stava per partire ebbe la forza di dirgli: – Ci vedremo in Spagna, ne sono sicura.
Gli sorrise, con l’animo gonfio di mestizia.

giovedì 20 ottobre 2011

Il poeta solo

Le strane sembianze di un dormiente col volto di ceramica. Dagli occhi infossati e spenti del Maestro non traspariva nessuna luce e due lacrime uscite dai miei lo hanno salutato. Le labbra sottili e serrate dalla morte non si apriranno mai più, non ci inonderanno con la sua voce saggia e ironica; le mani magre e ossute del grande saggio non obbediranno più all'istinto di scrivere, vergare i fogli, far parlare le parole della fantasia, delle piccole e grandi verità.
Di quell'uomo sotto un abito funebre troppo grande per il suo corpo vecchio ho visto soprattutto la testa, ho immaginato il corto circuito che ha fatto tacere per sempre ciò che ancora aveva da dirci, le osservazioni argute e le taglienti arrabbiature con le quali ci avrebbe sferzato, spronato, sgridato. Carezze, per chi sia abbastanza umile da fermarsi a pensare.
Ecco, se è vero che nella testa nasce il pensiero, la capacità di trasformare emozioni e sentimenti in idee, quella era la parte giovane del vecchio che se n'è andato.
Era solo però, in questa mattina di pioggia battente, a fargli compagnia la guardia silenziosa dei Carabinieri, qualche sparuto visitatore infreddolito, il pensiero e il ricordo, forse, di molti.
Poco ascoltato in vita, come spesso capita ai poeti, chissà se ce ne ricorderemo, qualche volta, dopo che sarà passato il momento della lettura improvvisa e vorace dei suoi versi.
Poco importa in realtà, la verità è spesso troppo semplice per essere compresa, i poeti usano poche parole, minoranza in un mondo logorroico intento ad ascoltarsi senza comprendere ciò che sta dicendo.
Aveva detto da poco che 90 anni sono troppo pochi per capire qualcosa della vita: e i suoi occhi, in quel momento, hanno espresso tutta la saggezza possibile, tutta la profonda comprensione per un'umanità che si sente smarrita, incapace, impaurita.
Grazie, Maestro.

L'ATTIMO FUGGENTE

Ancora qui. Lo riconosco. In orbite
di coazione. Gli altri nell'incorposa
increante libertà. Dal monte
che con troppo alte selve m'affronta
tento vedere e vedermi,
mentre allegria irrita di lumi
san Silvestro, sparge laggiù la notte
di ghiotti muschi, di ghiotte correntie.
E. E, puro vento, sola neve, ch'io toccherò tra poco.
Ditemi che ci siete, tendetevi a sorreggermi.
In voi fui, sono, mi avete atteso,
non mai dubbio v'ha offesi.
Sarai, anima e neve,
tu: colei che non sa
oltre l'immacolato tacere.
Ravvia la mia dispersa fronte. Sollevami. E.
È questo il sospiro che discrimina
che culmina, "l'attimo fuggente".
È questo il crisma nel cui odore io dico:
sì, mi hai raccolto
su da me stesso e con te entro
nella fonte dell'anno.
Andrea Zanzotto

sabato 15 ottobre 2011

Compleanno di un'amica

Sorridi,
e brillerà di più
il mattino luminoso
di quest'autunno.
Parla, racconta,
e sarà musica che accompagna
i suoni della natura che ci rimane.
Piangi se vuoi,
e le lacrime si mischieranno
alla prima brina.
Sarai comunque tu
parte orgogliosa ed unica
del mondo che ti appartiene,
scrigno prezioso per chi ti vuol bene,
guizzo e desiderio,
stupore, entusiasmo di un'amica.

Isabella, 15 ottobre 2011

lunedì 10 ottobre 2011

Viale Spellanzon. Inizio d'autunno.

Un refolo. Poco di più. Inizia un lento mulinello ed insieme alle prime grosse gocce le foglie invadono il viale.
Alcune accelerano grazie alla pioggia che ticchetta sul loro dorso, altre continuano la placida discesa, contribuendo a variegare la luce che traspare, inonda, fluttua, muta la nostra visuale.
Beffandosi, come spesso accade, degli affanni umani, il fogliame in caduta libera e senza una mira precisa vanifica il lavoro degli operai del Comune intenti a pulire il marciapiedi: il tubo soffiante indirizza l'aria da una parte per spostarle e loro ricadono lì dove è apparso nuovamente il fondo stradale.
Spiritose e beffarde continuano a scendere, quasi non si trattasse della loro stessa fine. Immagino che vogliano andarsene ridendo: tutto sommato il calpestio produce un rumore allegro e scanzonato, così sarà fino a quando la pioggia non avrà reso fradicio il letto multicolore.
Questo un tempo era il Viale dei Passeggi, adornato di statue bianche con visi a volte austeri a volte bonari. Ascoltavano impassibili le chiacchiere, quelle innocenti e quelle nascoste, quelle degli amanti e quelle delle spie; mantenevano i segreti bisbigliando qualcosa, magari, durante la notte, quando donne e uomini dell'Ottocento se ne stavano rinchiusi, tutti a parte gli sbandati o i matti, quelli che non avrebbero mai rivelato le parole dei busti di marmo, tanto nessuno avrebbe dato loro retta.
Forse proprio i matti sapevano ascoltare il sussurro del marmo nudo nell'inverno, il fruscio delle foglie deboli durante l'estate, qualche viandante sapeva apprezzare il debole ma confortante tepore di un letto di foglie dai colori cangianti, sorridendo, magari, alla vista di una serissima statua incapace di scrollarsi di dosso quella foglia malandrina, sorniona, venuta a posarsi proprio lì, sul testone bianco.
Magari ci fosse, un refolo di vento, certe notti.

sabato 8 ottobre 2011

Lacrime asciutte


Il treno adesso correva verso Bologna e Venezia. Tea, incurante degli altri passeggeri, si abbandonò ad un pianto silenzioso e liberatorio: dopo quel giorno lontano aveva versato poche lacrime affrontando a muso duro tutto ciò che la vita le aveva riservato. Tanto, troppo forse.
Il convoglio risaliva affannosamente l’Appennino, quasi accompagnando i pensieri ed i ricordi di Tea.
In quella sera lontana Bruno, silenzioso, era rientrato con lei, cenarono in silenzio, scrutando uno negli occhi dell’altra i pensieri, i timori, le certezze amare.
Nel freddo di quella notte parigina stettero abbracciati nel letto, l’amore venne anch’esso in punta di piedi, senza clamore, velato di disperata malinconia.
Nei giorni seguenti Bruno preparò la partenza per la Spagna: Tea si muoveva come un automa, senza più chiedere nulla, senza porsi domande alle quali non avrebbe saputo dare risposte, se non ferite sempre più profonde.
Spartaco rifiutava di rivederla.
Tea era sola, ancora una volta sola.

venerdì 7 ottobre 2011

Tre volte trenta a Padova



TRE VOLTE TRENTA
Romanzo di Isabella Gianelloni


SABATO 29 OTTOBRE 2011 ORE 18,00
presso
La Risorta Osteria del ReFosco
Via Carlo Cassan, 5 Padova

Laura Ruzickova incontra Isabella Gianelloni
http://colleinblog.blogspot.com/





giovedì 6 ottobre 2011

Il torrente

IL TORRENTE
Italo Calvino
da “Marcovaldo”
Ho lasciato lassù, sotto i ghiacciai delle Venoste,
un torrente che non posso dimenticare.
Mai avevo visto l’acqua splendere, correre e cantare così.
Veniva giù dritta,
incassata in un letto muscoso, tutta un candore di spume: faceva la luce.
A balzi, a spruzzi, a capriole l’acqua
scendeva, stretta nel suo letto,
coprendolo perfettamente senza sbavature né pentimenti.
Tornai più volte al torrente.
E ogni volta scoprivo in esso o intorno ad esso una bellezza nuova.
Una mattina volli seguire in senso inverso il suo corso.
Mi allettava scoprire il suo misterioso viaggio e il segreto delle sue origini.
M’arrampicavo tenendomi quanto più potevo vicino ad esso.
Qualche volta ero costretto a scostarmi
e allora lo vedevo occhieggiare fra i tronchi,
mandare degli spruzzi argentei quasi per
incoraggiarmi nel cammino.
I larici andavano diradandosi, lasciavano il torrente
che pareva un laghetto di montagna.

martedì 4 ottobre 2011

Conegliano e le zuppe economiche

Nel 1815 la Delegazione centrale di beneficenza del Tagliamento, per far fronte alla miseria crescente della popolazione, e indicando il provvedimento come assolutamente necessario vista la gravità della situazione inviò ovunque un opuscolo contenente l’Istruzione intorno alle Zuppe Economiche.
L’invenzione di questo alimento veniva attribuita “all’immortale Rumford”, pare un inglese, di cui non è rimasta alcuna traccia rilevante…
Le zuppe erano state introdotte in quel di Monaco, poi in altre città della Germania e della Francia, nonché in qualche ospitale inglese.
Nell’opuscolo si legge che (le zuppe) “mirano a combinare per modo le usuali sostanze nutritive, che con quello, che verrebbe consumato da una sola persona possano venirne alimentate parecchie”.
Fondamentale ruolo veniva dato all’acqua: “Il potere nutritivo delle sostanze alimentari non sta solamente in ragione delle masse solide, ma in ragion composta di queste, e del volume, che loro si fa prendere; in guisa che fondendosi una di queste masse, sotto l’attività continuata del fuoco, in una data quantità di liquido, il suo potere nutritivo prodigiosamente si accresce”.
Vienna lanciò quindi in grande stile la campagna per le zuppe economiche raccomandando di seguire le istruzioni visto che “nel sommo della sventura la forza imperiosa del bisogno potrebbe spingere degl’infelici a cercare un alimento in sostanze nocive, o meno salubri”.
Si trattava quindi di preparare un brodo con ossa (anche già residue di cottura ordinaria) e, quando possibile, altri scarti di animali, fatto bollire per 12 o 24 ore, con l’aggiunta continua di acqua. Al brodo ottenuto venivano aggiunti cereali (orzo fatto bollire 6 ore, o riso per 12 ore) o legumi, erbe spontanee, farine, aromi e quant’altro.
Prima di dare le dosi esatte, le Istruzioni si preoccupavano di raccomandare ancora l’utilità delle zuppe, affermando che “un movimento generale di generosa pietà può concorrere a mantenere perenni questi fonti di pubblica beneficenza… Possano queste provvidenze allontanare gli effetti ancora più funesti, a’ quali il tormento della fame, e la disperazione possono trascinare involontariamente tanti infelici!”.
Interessante è il fatto che le suddette istruzioni menzionassero l’uso efficace della patata, rammaricandosi del suo scarso, o nullo, utilizzo in queste contrade.
Il risultato, comunque, era una brodaglia sicuramente con scarsi effetti ricostituenti.
Il parroco di Godega, paese situato lungo la Strada Postale del Friuli, nel maggio 1816 scrisse che la popolazione riceveva un po’ di sollievo dalle zuppe, ma lamentò il fatto che permanevano gli alloggi militari.
Le zuppe erano uno dei due strumenti utilizzati da Vienna per venire incontro alla popolazione stremata, l’altro era l’impiego di forza lavoro in quelli che oggi chiameremmo “lavori socialmente utili”.
Con precisione tutta asburgica chiedevano numeri, conto dei magri stanziamenti in denaro per la confezione delle ormai famose zuppe, puntigliosi elenchi dei poveri, da cui dedurre quali fossero quelli effettivamente allo stremo da quelli che, magari, potevano resistere di più.
I parroci, unici referenti in un simile bailamme di miseria e disperazione, compilavano, chiedevano, assicuravano, ma qualcuno scriveva, adirato per dover decidere quali parrocchiani sarebbero dovuti morire prima di fame.
Con buona pace dell’ “immortale Rumford”.

sabato 1 ottobre 2011

Anche i nobili piangono

RAGIONERIA DELLA MISERIA - ANCHE I NOBILI PIANGONO
 Nella prima metà del XIX secolo la mortalità era ancora altissima, soprattutto nell’infanzia e fra le classi meno abbienti, ma non solo.
Se la pellagra era appannaggio dei più poveri, le malattie infettive attraversavano trasversalmente tutte le categorie sociali, nobiltà compresa.
A Conegliano nel 1837 le famiglie nobili erano 26, molte erano rami di uno stesso ceppo. Dieci di queste, però, erano senza figli e destinate perciò all’estinzione.
Come sempre accadeva, anche la nobiltà aveva i suoi “casi pietosi”, risultato quasi sempre della dissolutezza e dell’incapacità di alcuni dei suoi membri.
C’è l’esempio di tale Domenico Romieri, nobile, di anni 42, che nel 1831 si trovava ad avere la pensione patrizia come unica fonte di sostentamento per la famiglia. Il nobiluomo risultava ridotto allo sfinimento per dissolutezza e alcolismo.
Altro caso è quello del casato dei Buffonelli, in particolare di Giuseppe, che nel 1831 aveva 30 anni ed era figlio di Francesco, comunemente noto in città come il “matto Buffonelli”.
Fu chiamata la forza armata per eseguire il pignoramento dei beni di famiglia.
Giuseppe Buffonelli fu ricoverato a Venezia, a San Servilio, da dove fu dimesso perché dichiarato più imbecille che maniaco.
Venne altresì inserito fra i non aventi diritto all’assistenza gratuita in quanto nobile, anche se il Comune ne dichiarava l’assoluta povertà.
La famiglia è veramente miserabile, e tanto più ella è tale perché la sua condizione rende più umilianti quelle privazioni del necessario assoluto, cui è condannata soffrire.
Un altro problema per i parroci, sempre costretti a compilare le liste per avviare la distribuzione di pane ai bisognosi, come previsto dal lascito Testori, e che furono invitati a comprendere nell’elenco dei poveri anche quelli cosiddetti vergognosi.
L’invito raccomandava ogni saggia economia in questo elenco, onde non imbarazzare nella scelta, riproducendo così, ancora una volta, lo schema della divisione fra miserabili e miserabilissimi, fra chi non aveva nulla e chi, non si sa bene come, aveva ancora meno.
Si giunse a proporre la compilazione di un elenco separato di tutti i poveri veri della parrocchia che non potevano vivere che di questua, proponendo di contrassegnarli con una marca visibile.
Chi non era in possesso della marca in questione non poteva questuare né in città né nel circondario esterno, anche se alle guardie di Pubblica Sicurezza fu raccomandato di avere sì la mano forte, ma con quelle maniere e riguardi che esige una classe tanto interessante la umana sensibilità.
Vedi mai che non ci fosse qualche nobile sfortunato, a cui mancava anche la patente di miserabilità.

venerdì 30 settembre 2011

Parigi in festa con Tea


Tea si era addormentata serena, Firenze con la sua sconfinata bellezza le aveva infuso ottimismo e voglia di ricominciare. Sapeva che il suo viaggio si sarebbe concluso poche ore dopo, ma era consapevole di non poter prevedere cosa le sarebbe accaduto, una volta tornata a casa, o meglio nella città che l’aveva vista nascere.
Nel dormiveglia mattutino, chissà perché, era ritornato quel tremendo ricordo antico. Si svegliò agitata e confusa, non riusciva bene a comprendere dove si trovasse. Un po’ tentoni si diresse verso lo spiraglio di luce che entrava dalle imposte, le aprì un po’ incerta e si consolò di fronte ad un oleandro ancora in fiore: Firenze le diede il buongiorno con i colori di quel ricco fogliame e dei suoi fiori rossi, augurio di vita e nuove passioni.
Il mattino toscano le diede la forza di affrontare il ricordo di quei giorni lontani, composti di una febbre che non volle lasciarla per settimane, della sensazione di solitudine e abbandono, della tristezza per la lontananza di Bruno inviato chissà dove dal Partito e la totale assenza di notizie di suo figlio. Solo Esterina le era rimasta vicina, aiutandola a riprendersi, confezionandole brodini ed enormi quantità di latte per “tirarla su”.
Erano seguiti anni difficili, di lavoro intenso, fitto e a capo chino.
Si era fatta scontrosa e dura, diffidente verso il prossimo; se non fosse stato per quegli occhi ed i suoi capelli morbidi e setosi la si poteva scambiare per un essere senza sesso, una donna dimentica della propria femminilità. Scriveva a macchina, stampava, leggeva, veniva inviata in missione, qualche volta, nel tentativo di arginare la prepotenza di un regime che si faceva sempre più duro, sempre più opprimente, sempre più barbaro e spietato.
Mentre il Duce sempre più bellicoso annunciava la nascita dell’Impero “sui colli fatali di Roma” Parigi festeggiava la vittoria elettorale.
Dopo tanto tempo Tea tornò a ballare in quelle piazzette dove improvvisate orchestrine davano vita, speranza, gioia, allegria.
Seguiva la musica, sorrideva, per la prima volta dopo anni la vita non le parve solo una sequenza infinita di sofferenza, rinunce e paura delle spie. Chissà, dalla Francia sarebbe partita la riscossa di un’Europa ormai stanca di dittature e stermini, di libertà conculcata e miseria generalizzata.
Maggio era tiepido, Tea si sedette esausta per bere e prendere fiato. Guardava Esterina e la vide cambiare espressione all’improvviso.
La redingote era sparita, al suo posto un fiammante gilet blu sopra una camicia bianchissima. Sopra la bocca, a nasconderla leggermente, un paio di baffi importanti che davano a Bruno un’aria da vero piemontese.
La musica riprese e furono convinti che suonasse solo per loro, che Parigi fosse in festa perché quella sera dovevano ritrovarsi. Ballarono una musica che sentivano battere l’uno nel petto dell’altra, si dissero parole che nemmeno ascoltavano, ma sentivano i brividi dei sussurri che si facevano valzer, della voce che entrava in loro calda come un tango.

mercoledì 28 settembre 2011

Ospiti illustri - Conegliano 1797


Dalle memorie di G.B. Graziani
L’ARCIDUCA CARLO D’AUSTRIA
11 febbraio 1797. Alle ore 19 circa capitò con un legno a sei cavalli l’arciduca Carlo con un suo aiutante e due uomini in coda. Arrivò alla Posta aspettato da una banda militare, soldati in tre file, tre ufficiali e con l’alfiere che teneva la bandiera spiegata. Fu ricevuto a tamburo battente e con le armi presentate. Allo scendere dal legno fu ricevuto dal generalissimo Alvinzi con tutto lo stato maggiore e diversa ufficialità. Ascese la prima scala e nel primo appartamento, l’arciduca e il generalissimo Alvinzi stettero un gran tratto di tempo.

12 febbraio. L’arciduca accolse alla Posta i rappresentanti della città: li ricevette alla porta della stanza, rispose ai complimenti dei pubblici rappresentanti con le maniere le più obbliganti, dicendo che è stato ed è riconoscente a questa città per la costante somministrazione di generi da essa fatti alla imperiale armata, alle attenzioni e premure di questi nobili cittadini e che ciò da lui verrà fatto rimarcare al momento opportuno al di lui augusto fratello.

NAPOLEONE BUONAPARTE
13 marzo 1797. Nella mattina del 13 la prima colonna francese quasi tutta composta di cavalleria, diretta dal generale  Serrurier rimase a Conegliano ad aspettare il generalissimo Buonaparte che con la sua colonna veniva dalla Romagna. Questa colonna prese la stessa posizione della prima e Buonaparte arrivato a mezzogiorno pose il suo quartier generale alla Posta. Ripartì questa seconda colonna con Buonaparte alla testa, avente sulla dritta il generale Serrurier, sulla sinistra il generale Berthier, verso Sacile il 14 marzo.
26 agosto 1797. Verso le ore 21 partirono per la Piave quasi tutti questi ufficiali a cavallo per incontrare il generalissimo Buonaparte che in questa sera doveva capitare da Treviso, ma ritornarono soli alle ore 23,1/2. Solo verso la mezza ora di notte arrivò il Buonaparte con tre legni a sei e due a quattro cavalli; non smontò di legno, prese solo una tazza d’acqua. Il generale Le Sol che andò a complimentarlo, gli presentò anco la Deputazione incaricata da questa Municipalità a rendergli omaggio. Napoleone si levò in piedi, ringraziò, ricercò del contegno della truppa, indi proseguì il suo viaggio appena cambiati i cavalli alla Posta.

GIUSEPPINA BEAUHARNAIS
17 settembre 1797. Alle 18 capitò da Treviso madama Buonaparte con una dama Visconti, nella sua carrozza a sei cavalli, e scortata da soldati della guardia; in un’altra carrozza a quattro cavalli, v’era una dama di casa Serbelloni con il fratello del generale Berthier, nella terza v’erano due ufficiali di stato maggiore e due dame. Fu complimentata alla Posta dal cittadino Francesco Sarcinelli al quale corrispose con molta cortesia.

lunedì 26 settembre 2011

Conegliano alla fine della Serenissima

Conegliano godeva da sempre del favore dato dalla sua felice posizione geografica, che ne aveva favorito lo sviluppo produttivo ed economico e ne aveva fatto il centro più importante del circondario, abbastanza vicina com’è al Piave, ultimo avamposto della pianura prima delle montagne, attraversata dalla Strada Postale del Friuli, transito obbligato per chiunque si recasse da Venezia verso il Friuli, appunto.
Con l’approssimarsi della guerra nei territori della Terraferma veneta, tutte queste favorevoli situazioni si trasformavano d’un tratto in circostanze tremende, con esiti sconvolgenti per una economia e una popolazione tutto sommato molto fragili.
Si è calcolato che fra il 1797 e il 1815 passarono per queste contrade centinaia di migliaia di soldati dei diversi eserciti in guerra, alternativamente austriaci e francesi, financo russi. I paesi posti in luoghi più isolati, e anche il Cenedese, ringraziavano pubblicamente Dio per averli lasciati fuori da tutto ciò che il passaggio continuo di truppe significava. Fra il 1796 e i primi mesi del 1797 Conegliano fu il centro di acquartieramento delle truppe austriache, con il conseguente andirivieni di soldati, cavalli, carri e cannoni.
Quando nel marzo 1797 i Francesi operarono lo sfondamento decisivo nel Coneglianese, all’inseguimento degli Austriaci in fuga transitarono non meno di 40mila francesi, fra i quali il generale Bonaparte, che prese alloggio nella cittadina e di qui ripassò una seconda volta, diretto a Treviso, il 25 ottobre, una settimana dopo la firma del trattato di Campoformido.
Il 18 maggio vennero convocati in San Martino i capi famiglia, nel numero di 211, su istruzione del generale di brigata francese Meyer, per eleggere i 9 membri della Municipalità, nella quale per la prima volta sedevano anche membri di famiglie non nobili.
I 9 eletti furono: Vettor Gera, Pietro Caronelli, Ernesto Montalban, Paolo Buffonelli, Giobatta Binda, Sebastiano Da Frè, Giuseppe Cappelletto, Giovanni Biadene, Antonio Montalban.
Fra questi è da notare il nome di Giuseppe Cappelletto, democratico e giacobino, che sarà confermato nell’amministrazione della cosa pubblica anche dopo l’arrivo degli Austriaci, grazie alle sue indiscusse capacità.
Lo stesso generale Meyer sottoscrisse di suo pugno la nomina, chiarendo anche i compiti della Municipalità.
Essa aveva l’amministrazione della città e dei comuni limitrofi, doveva procurare gli alloggi delle truppe e la loro sussistenza, tenere il registro dei viveri, delle requisizioni del Comandante della Piazza e del Commissario di guerra, la Cancelleria e l’Archivio per i quali si raccomandava di vegliare “attentamente onde niente possa essere distratto”.
L’impiego della forza armata e la giustizia dipendevano direttamente dall’esercito francese.
In realtà la città era considerata in stato d’assedio, e i membri della Municipalità giurarono fedeltà alla Repubblica Francese.
La primavera del 1797 sembrò comunque l’inizio di una nuova era, col cambio, almeno in parte, della classe dirigente e ripresero fiato quelle speranze democratiche che avevano animato molti spiriti prima e dopo la Rivoluzione Francese, anche se occorre osservare che il Coneglianese non era certo luogo di giacobini estremisti, e pur avendo visto vitali circoli intellettuali nella seconda metà del Settecento, gli echi della rivoluzione non vi avevano portato sconvolgimenti eccessivi.
I Municipalisti avevano inviato al generale Meyer una “memoria istorico-ragionata” che raccoglieva i momenti salienti della storia coneglianese, esprimendo fra l’altro l’indipendenza “da sempre” dalla città di Treviso e la sua funzione guida, fino al 1600, nel Cenedese. La fine della sudditanza da Venezia era proclamata come un tentativo di ritorno alle libertà e prerogative di quel tempo andato.
In quei mesi convulsi, ovunque Napoleone si fermasse, ovunque ciò apparisse possibile, tutte le comunità cercavano di far giungere petizioni, richieste, delegazioni più o meno rappresentative. Conegliano, ovviamente, non era altro che un Comune fra i tanti a rivendicare un trattamento di riguardo, destinato, come gli altri, a veder cadere nel vuoto le proprie richieste.

sabato 24 settembre 2011

Per Pierluigi, mio marito

Me l'hai chiesto col sorriso sulle labbra e gli occhi pieni di speranza. Da quanti anni ormai cerco di interpretare, di leggere il tuo sguardo che racconta, che ricorda, che si cruccia per un errore compiuto, una giornata
perduta; oppure lo sfavillio della soddisfazione, dell'avventura vissuta come tu la volevi, della freccia scoccata al momento giusto, della consapevolezza di un altro obiettivo raggiunto.
Ti osservo, qualche volta sorniona e divertita, altre volte partecipe, sempre ammirata, quando prepari lo zaino con meticolosa cura, quando ti accerti che ogni cosa sia al suo posto, quando consulti per giorni libri e cartine, relazioni e racconti di altri, quando imperterrito interroghi quel bollettino meteo di cui ti fidi fino ad un certo punto.
Ho visto mille foto, mille immagini, ascoltato centinaia di racconti. Ti ho seguito qualche volta, quando, benignamente, abbassi il tiro e ti concedi una giornata di "riposo" fra sentieri che io percorro con fatica.
Le emozioni e le sensazioni le abbiamo spesso condivise, conosciamo il colore del cielo e delle foglie, il silenzio del movimento improvviso di animali comparsi e subito inghiottiti nuovamente dal mistero di rocce e boschi inaccessibili all'uomo. In verità non a tutti gli uomini, a quelli che non hanno il coraggio di confrontarsi con la natura e con se stessi. Ecco, ti immagino spesso con il tuo zaino e lo "stile impeccabile" di colori sapientemente abbinati che risali ghiaioni impossibili per somigliare almeno un po' agli abitanti di sempre di quelle altitudini. Sai che non sarai mai un camoscio, il tuo cuore non batte come il loro, le gambe non rispondono come le loro zampe, ma io so che dentro di te senti come loro lo spirito e l'anelito di libertà che quegli animali ti trasmettono.
Posso forse interpretare il freddo e la luce del mattino, la maestosità dei panorami e il colore abbacinante della "nostra" dolomia, ascoltare come te il rumore dei campanacci vicino alle malghe, osservare i fiori ed aspirare fino in fondo i profumi e gli odori inebrianti dei boschi e delle radure.
Ci proverò più spesso, ma non potrò mai sentire davvero come te, ci vorrebbe un camoscio, un cervo, forse un'aquila per sapere davvero cosa sente il tuo cuore quando sali, per ore ed ore, verso una cima.

giovedì 22 settembre 2011

Una serata per Leopardi

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XXIII - CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA
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Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E' la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il dì natale.

martedì 20 settembre 2011

Lacrime a Parigi

Cercò qualche risposta lungo le strade di Parigi, cercò sostegno guardando il fiume. Si ritrovò sul Pont D’Austerlitz e si rese conto che quella era la prima volta che percorreva così tanta strada da sola. Guardò i binari della ferrovia, la silhouette della Gare de Lyon e si diresse sicura verso la stazione.
Il fumo delle locomotive si mescolava alla pioggia residua che gocciolava dalle nuvole ormai svuotate e l’insieme, agli occhi di Tea, rendeva scintillante l’atmosfera di quel luogo magico composto di incessanti arrivi e partenze.
Quella di giungere fin là non era stata una scelta cosciente ma ora si rendeva conto che non c’era nessun altro luogo adatto al suo stato d’animo.
Sentì fortissima la tentazione di salire su uno di quei convogli pronti e già sbuffanti nell’attesa, di provare ancora una volta l’ebbrezza di un viaggio nuovo, di buttarsi a peso morto in un’avventura densa solo di incognite.
Su una panchina vide una giacca simile ad una redingote.
Conoscevano a memoria gli abbracci, sapevano come far scorrere le emozioni, come sentire il proprio respiro all’unisono con quello dell’altra, i polpastrelli percorrevano sicuri le piccole curve della pelle, percepivano i flebili sussulti causati dalla forza insopprimibile dell’amore.
Rimasero così, allacciati, per un tempo che a loro parve tutto sommato breve, disperati in quella che doveva apparire una felicità troppo grande per essere accettata dagli altri.
Tea era ancora rossa per lo sforzo, per le lacrime, per la rabbia impotente. Bruno riusciva solo a stringerla cercando di darle quella consolazione che avvertiva come impossibile anche per se stesso.
Erano soli, soli in una città tutto sommato straniera, forestieri in ogni luogo del mondo, soli davanti ai giudizi, ad una morale che si accontentava di perpetuare se stessa, che non prevedeva l’indulgenza, la comprensione, la voglia di cambiare.

lunedì 19 settembre 2011

Riflessioni da una serata sull'amore

Non è facile, di questi tempi, parlare d'amore. Si rischia senz'altro la banalità oppure, nella peggiore delle ipotesi, qualcuno può cadere nella prurigine, nell'ammiccamento, nella volgarità. Forse non lo è mai stato.
Grazie, quindi, a Flavio Caroli, grazie a Pordenonelegge che lo ha invitato. L'arte è maestra, l'arte ci aiuta a comprendere meglio quale sia il pensiero, quello migliore, dell'uomo su quello che il professore ha definito uno dei "fondamentali" della vita. O meglio, in conclusione, il punto di partenza dell'agire dell'uomo. Bellissimo il passaggio iniziale sulla concezione romana, e pompeiana della vita  terrena, e carnale, vissuta giorno per giorno, interamente, nell'incognita del domani.
Siamo stati trasportati nelle pieghe della concezione cristiana e nell'interpretazione, spesso libera senza apparirlo, che la pittura ha dato per secoli delle emozioni umane, dell'istinto riproduttivo, del senso di libertà e di angoscia da sempre legati all'amore.
Dalla struggente melancolia del ritratto giorgionesco, con la luce che gioca con i sentimenti del protagonista abbiamo poi vissuto l'intensità dell'estasi di Santa Teresa come ce l'ha consegnata la sconvolgente bellezza della statua di Bernini.
La sensualità della Maja di Goya ci introduce alla concezione contemporanea, ad un erotismo non più nascosto, alla prepotenza delle sensazioni, giù fino a Courbet, Klimt, al grande Picasso col suo amore assoluto e dissoluto, onnivoro ed esaltante.
Un viaggio, quello dell'arte nel mondo dei nostri sentimenti che ci aiuta a comprenderci meglio, a pensare, magari, che dovremmo ripartire da lì, dalle nostre sensazioni primigenie, dall'atteggiamento verso gli altri esseri umani, dalla capacità di mettersi in gioco, forse uno dei più grandi insegnamenti (e sfide) dell'amore.

sabato 17 settembre 2011

Il venerdì del villaggio. Mercato a Conegliano anni '30

Da sempre il mercato settimanale caratterizza i piccoli ed i medi centri italiani. Conegliano ha nel venerdì il giorno fatidico, quello nel quale, ancora oggi, si incontrano donne e uomini della città e della campagna, persone che vendono ed altre che comprano. Girare per la città significa lo slalom fra decine di bancarelle, il frastuono delle voci (oggi anche dei motori), la mescolanza degli odori delle diverse merci scambiate. Questo un gustosissimo racconto degli anni Trenta:
Gobbolin – Concini, La perla del Veneto, Conegliano, 1935
“Fuori, sul piazzale, compare, prima timida, poi più decisa, la contadinotta scesa dal colle, e arrivata al piano con i fidi gallinacei e l’immancabile sporta di uova. L’improvvisata negoziante non si fida di primo acchito a fare il prezzo; è necessario un conciliabolo a tre, a sei e più comari; poi finalmente la montagna partorisce … non il fatidico topolino, ma la sentenza più inappellabile del mondo, che cadrà sul capo delle buone massaie già preoccupate di fare un buon acquisto. E intanto si palpa, si soppesa, si soffia tra le piume delle innocenti bestiole; si tira, si arrabatta, si prende, si molla, si finge di abbandonare il contratto, si ritorna sui propri passi e finalmente … si compera. Una mimica, un vociare, un conteggiare che fa perdere la testa. Notiamo un particolare: quasi tutte le contadine hanno il loro bravo libro dei conti fatti. Non si sa mai…
Più avanti, sotto i vasti portici di Via Cavour, ecco il mercato delle granaglie. Qui vi è più silenzio: si osserva. Si prende una manata del biondo granoturco, si annusa se sa di muffa, si lascia ricadere, e si domanda il prezzo. Sono affari da uomini, v’è più serietà (…) Per le sementi di erba medica, di spagna o di trifoglio, l’affare è più complesso; osserviamo che c’è più concorrenza nei prezzi, c’è diversità di qualità, e allora è necessaria più tattica del venditore (…) Più su, in Via XX Settembre ti attendono le stive, le colonne di terraglie. Caldanini e lucerne a petrolio, boccali da vino (…). Poi finalmente si entra nel grosso del mercato silente e grave: quello dei tessuti… Però qui non è permesso turlupinare, è cosa seria. Continuando la via, troviamo il mercato delle calzature. Odor di cuoio e di grasso lontano un miglio. Anche qui serietà e compostezza.
Verso la fine di Via XX Settembre: mercato delle frutta e verdura all’ingrosso. Lavoro grande di pesa e facchinaggio. I contratti si fanno al “Canon”, da “Fuscalzo”, dal “Piemontese”, al “Nazionale”, a “Rialto”, alla “Bella Venezia”; sei osterie e trattorie in cinquanta metri.
Passando nel rione del Monticano, oltre il ponte della Vittoria, ecco il mercato dei cesti in vimini… Per Via Fenzi raggiungiamo il Foro Boario. La grande fiera è qui. L’emporio degli affari si esplica in questa zona, destinata al commercio dei bovini, equini, ovini (…) A mezzogiorno tutto è finito… Autocarri grandi come case attendono la merce acquistata; verso la ferrovia si incolonnano muggenti torme di bovini (...). Al mercato dei latticini un vociare indiavolato, pare impossibile che il gorgonzola dia tanto fiato ai polmoni! All’angolo di Corso V.E. e Via P.F. Calvi troviamo Francesco col “Brill”, e un odor di pesce ti avverte che è prossima la Pescheria.
E il giro del mercato è finito; ritorniamo presso la fontana del Nettuno e un canto ci invita ad unire la nostra alla curiosità dei più. Sotto gli ippocastani della Salita Caprera si narra sulla cetra l’infelice storia della immancabile giovane rapita dai malfattori e graziata per l’intervento Divino. Così, da secoli e secoli l’anima ingenua e buona dei nostri popolani si interessa e crede”.

venerdì 16 settembre 2011

Spalti di Toro Parole in vetta

Un  nume bizzarro ha fatto un regalo ai poeti. In un tempo antico essi vivevano lontani, senza curarsi di guardare troppo all'insù, timorosi di emozioni troppo grandi, occupati a cantare l'amor cortese, i flutti imperiosi, le mille avventure di dame e cavalieri, i drammi dell'uomo, le sue ansie, le paure, le vendette, le speranze e le illusioni.

Da qui vedo e mi sento smarrita dalla bellezza assoluta: guglie impervie ed assolute abitate solo dai semi di piante impavide, frastagliate come i sentimenti dei giovani che si affacciano alla vita; cime unite le une alle altre da vie solcate dagli zoccoli dei camosci, rapidi, fulminei nei balzi decisi; sculture multiformi scolpite dal nume ispirato e sornione, oppure rabbioso, magari stanco e impreciso, determinato a donare, comunque, una prova della propria bravura.
Montanari poeti, pastori silenziosi e pensosi, cacciatori agili come le prede hanno osservato, salito i pinnacoli ed i loro ghiaioni, i prati ed i boschi, trattando le rocce come sorelle, come parenti mutevoli, difficili ma presenti, sempre, nell'orizzonte di ciascuno. Gli esseri umani hanno un nome, siano essi figli amati, amici cercati o nemici detestati. Montanari cacciatori e pastori hanno fatto di più, hanno impresso per sempre nel nome ciò che questi immensi sassi sono per noi, ancora oggi.
Il nume aleggia e protegge le guglie, osserva i prati ed i boschi, sentinelle mutanti degli Spalti; a noi la sfida di cercare poeti per nuovi nomi da dare ad un incanto.
11 settembre 2011

sabato 10 settembre 2011

Questo è un incipit

Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni lo aveva accompagnato un ragazzo, ma dopo quaranta giorni passati senza che prendesse neanche un pesce, i genitori del ragazzo gli avevano detto che il vecchio ormai era decisamente e definitivamente salao, che è la peggior forma di sfortuna, e il ragazzo li aveva ubbiditi andando in un'altra barca che prese tre bei pesci nella prima settimana. Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare o le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all'albero. La vela era rattoppata con sacchi di farina e quand'era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne. Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde alla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del cancro alla pelle, provocato dai riflessi del sole sul mare tropicale. Le chiazze scendevano lungo i due lati del viso e le mani avevano cicatrici profonde che gli erano venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti. Ma nessuna di queste cicatrici era fresca. Erano tutte antiche come erosioni di un deserto senza pesci.
Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare.

venerdì 9 settembre 2011

La città di Cima

Senza scavalcare le colline coi loro continui saliscendi, dopo gli assestamenti e le fortificazioni del XIV secolo, oggi testimoniati dalle splendide mura scaligere terminate dai Carraresi, fu naturale per la città scendere decisamente verso la pianura, alla ricerca di spazio per le nuove dimore, di strade per i commerci.
Dopo che la “pax” della Serenissima fece perdere importanza al concetto medioevale di fortificazione, l’insieme delle mura e delle torri di vedetta contribuì ancora per secoli a tramandare l’immagine di una città importante, ben difesa, la stessa che riusciamo ad ammirare nella descrizione, quasi una “fotografia”, che ci tramanda Giambattista Cima alla fine del ‘400 e che rassicura anche noi, abituati a riconoscere ciò che resta del passato in mezzo al coacervo delle costruzioni moderne.
A rimanere pressoché invariato è il profilo del colle più alto, col castello e gli alberi che lo circondano, visibile anche da molto lontano, con la fila delle mura che scendono verso il piano e ciò che resta dell’antico maniero, sia pur ricostruito e variato anche nella merlatura della torre. [...]
Sulle rive del Monticano da secoli operavano alcuni monasteri, alcuni dediti più alla predicazione, alla preghiera e all’insegnamento, ma altri decisamente impegnati nelle attività artigianali, soprattutto tessili, favorite dalla presenza del fiume.
Cima alla fine del Quattrocento era già pittore famoso, affermato e ben pagato, curioso delle novità ma legatissimo alla sua terra. I paesaggi descritti nei suoi quadri, pur nell’allegoria necessaria alla comprensione delle scene sacre, ci offrono una miniera di informazioni sulla conformazione del territorio della terraferma veneta, sulla presenza degli scambi commerciali, sulla vegetazione, fino a regalarci l’immagine più preziosa per noi coneglianesi: la S. Elena oggi a Washington è più di un quadro, è immagine e mappa della nostra città di allora, con il Castello e la chiesa di S. Leonardo, le mura lungo il Refosso, il ponte sul Monticano verso levante.
Tutto intorno, la precisione del pittore ci illustra le povere case col tetto di paglia di quanti vivevano fuori dalle mura, la vegetazione rigogliosa ma certamente non controllata e ordinata dall’uomo così come la conosciamo noi oggi. 
Tratto da: Isabella Gianelloni, in Le radici della città, Arti Grafiche Conegliano, 2011

giovedì 8 settembre 2011

La duchessa di Guermantes

Sentivo il mio essere dissolversi felicemente in mezzo ad esso, quando, nell'attimo in cui - per effetto, certo, delle leggi della rifrazione - la forma confusa di quel protozoo sprovvisto di vita individuale ch'io ero entrò, configurandosi, nella corrente impassibile dei suoi occhi azzurri, vidi in essi accendersi un bagliore: la duchessa, dea fattasi donna e apparendomi d'un tratto mille volte più bella, alzò verso di me la mano guantata di bianco che teneva posata sul bordo del palco, e l'agitò in segno d'amicizia; i miei sguardi si sentirono attraversati dall'incandescenza involontaria, dalle fiamme degli occhi della principessa che, a sua insaputa, aveva provocato quella conflagrazione semplicemente muovendoli per cercar di vedere a chi fosse indirizzato il segno di saluto della cugina; e questa, avendomi riconosciuto, fece piovere su di me l'acquazzone scintillante e celeste del suo sorriso.
Marcel Proust, La Recherche, La parte di Guermantes I

mercoledì 7 settembre 2011

Ponte Vecchio


Tea pagò il conto e si avviò verso Ponte Vecchio, pensando fra sé al Pont Neuf di Parigi e alla Senna. Sorrise osservando gli innamorati che si attardavano per non spezzare l’incantesimo, abbracciati e silenziosi davanti allo scorrere del fiume. Non era quello, per loro, il tempo del dolore.
Passeggiando sola in quella serata fiorentina continuò a ripensare a quell’amore parigino, a quel periodo incredibile della sua vita, quando tutto pareva possibile, quando quella loro vita (la sua e di tutti gli esuli antifascisti) aveva il sapore e il profumo di una condizione disperata e meravigliosa allo stesso tempo, fuori dalla realtà e libera dalle incombenze quotidiane, lontana dagli affetti di casa ma anche dai lacci spesso soffocanti di una società vecchia, polverosa, bisognosa di una ventata di aria nuova.
Quella che aveva vissuto in prima persona, lei piccola slovena proveniente dai quartieri popolari di Trieste, era un’esperienza che nessuno avrebbe mai osato immaginare.
Nascere sulla strada che da Trieste porta all’Istria portava forse con sé l’istinto di non limitarsi al proprio ristretto orizzonte, sentendo imprescindibile il desiderio di attraversare comunque i confini. Lei fin da piccola amava arrampicarsi in cima alle alture che dominano la città, si sorprendeva a fantasticare chissà che cosa osservando il mare, adorava anche la bora quando la sorprendeva coi suoi soffi imperiosi, studiava con aria curiosa tutto ciò che la circondava.
Ripensandoci ora le trecce tanto odiate le avevano sempre permesso di avere lo sguardo libero.

Il braccio conteso

Nel palazzo Comello di Venezia fu ricoverato il generale Giacomo Antonini. Ferito ad un braccio durante la difesa di Vicenza, l’11 giugno 1848 fuggì a Venezia per continuare a combattere, ma il braccio non guarì e si dovette amputare.
L’Antonini – grato per le lunghe e amorevoli cure prestategli dalla contessa Maddalena Montalban Comello nella cui casa era stato ospite, le fece dono del braccio amputato.
Questo braccio, imbalsamato, rimase, come un ricordo dei tempi eroici e meravigliosi vissuti, nascosto nel palazzo Comello fino a quando non fu rinvenuto e sequestrato dalla polizia austriaca durante una perquisizione che, nel 1863, portò all’arresto della contessa. Anche questo divenne “corpo del reato”.
Dopo l’unione del Veneto all’Italia il braccio venne donato al Museo Correr di Venezia che, solo qualche anno fa, lo consegnò agli eredi del prode generale perché fosse sepolto con i resti dell’eroe.

lunedì 5 settembre 2011

Incipit


Ti ho lasciato dov’eri, prigioniero del groviglio delle parole non dette, dei peccati inconfessati, delle certezze smarrite. Ho cercato di non vederti, nonostante la luce che fuggiva dall’intrico dei rami intrecciati e sovrapposti a comporre null’altro che la vita, l’albero ormai grande, alto abbastanza da sentire la brezza, lassù.
Mi fa ombra, questa pianta contorta, a volte mi protegge ma altre, molte altre, mi soffoca.
Restare quaggiù, forse, al riparo dalle sorprese.
Provare a salire e sfidare il vento.
Cercare il coraggio per guardare oltre e affrontare la vertigine sapendo che, in un gioco affascinante ma un po’ crudele, tornare giù sarà quasi impossibile.
Oppure, beffa suprema, scoprire che sotto, nel frattempo, tutto è mutato e ormai sconosciuto.
Il futuro non aspetta nessuno e quando diventa passato il presente di prima non esiste più.
Mi cullo un po’ nel consapevole autoinganno, fingendo che la soluzione non ci sia, che tra rimanere immobile e ritrovarsi lassù, in balìa dell’inconosciuto, non ci sia una via di mezzo.
Potrei forse salire con un unico balzo, ma le ultime fronde sono troppo in alto, rischierei solo la delusione della sconfitta.
Potrei fare un po’ di strada e poi ridiscendere, risalire ancora percorrendo un tratto più lungo, poi tornare e così via, per non perdere del tutto il contatto con il mio terreno e verificare via via le differenze. Molto faticoso ma istruttivo.
Oppure potrei soltanto salire, con tappe più lunghe o più brevi, ma senza mai guardare giù. Una volta in cima sarebbe comunque troppo tardi per ogni ritorno: le fronde ormai folte impedirebbero di vedere più giù.
26 luglio 2009