Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

giovedì 31 dicembre 2015

Buon 2016, non scontato

Giornate, queste, di auguri a volte scontati, ma spesso sinceri. E poi, diciamocelo, camminare per la strada e incontrare sorrisi fa piacere.
Tremende sono invece le notizie provenienti da tanta parte di questo nostro mondo: c'è tutta un'umanità che soffre senza sosta, che non solo non sa cosa sia un giorno di festa, ma non vede un futuro davanti a sé; c'è chi un futuro ce l'aveva ma gli è stato tolto con la violenza; c'è chi lotta per il domani e chi, purtroppo, ha ormai rinunciato e cova, magari, un sordido rancore verso tutti gli altri.
E ci sono tutte le storie singole, minime, quelle che tutti noi conosciamo, che ci riguardino o meno: anche durante queste feste ci sono troppi che hanno perso o perderanno il lavoro, tante donne che vivono nel terrore, tanti ammalati, tanti, tantissimi, troppi poveri anche in questo angolo di mondo tutto sommato più felice di altri.
Tanti invisibili in Italia, le statistiche parlano di 55.000 persone senza un tetto sotto cui dormire, 12.000 nella sola Milano e, ahinoi, una media di 30-40 homeless (o barboni, chiamateli come volete) che dormono all'addiaccio nella mia Conegliano e di cui quasi nessuno si accorge, tranne i volontari che si prodigano per alleviare un po' la loro difficile vita. Dietro a ognuno di loro c'è una storia, ognuno di loro è una persona.
Per questi motivi, e per altri ancora, appaiono sempre più assurde la rincorsa a spendere e consumare per forza, l'incapacità di una società ipertrofica e bulimica fino alla nausea di rinunciare anche a piccole cose inutili, la crescita continua di egoismi davvero fuori luogo, la frenesia di dover per forza apparire o parlare senza pensare.
Non viviamo nel migliore dei mondi possibili, questo è certo, ma abbiamo la fortuna di poter leggere, se lo vogliamo; di esprimerci dopo aver pensato, solo che facciamo un piccolo sforzo; di poterci circondare di merci, prodotti, tecnologia, dimenticando che dietro di essi ci sono le persone; di osservare un bel paesaggio; di stupirci ancora una volta davanti alla potenza dell'arte; di amare qualcuno, non importa chi come e dove.
Giunga a tutti il mio più caldo augurio di un 2016 non solo sereno e prospero, come si dice sempre, ma soprattutto che ci insegni a guardarci intorno, a guardare dietro di noi, a compiere, ciascuno per ciò che gli è possibile, qualche azione utile a migliorare la vita di tutti gli altri.

lunedì 21 dicembre 2015

PAT Conegliano. Zero progetti, zero idee per il futuro

21 dicembre 2015. 
Discussione in Consiglio Comunale per l'adozione del PAT (Piano di Assetto del Territorio). Riporto il testo del mio intervento, cui sono seguiti quelli, puntuali ed incisivi, degli altri colleghi dell'opposizione.
Sta ora alla città rendersi conto della classe politica che la governa: nel 2017 si potrà cambiare.

1. Viviamo tempi difficili, colmi di scadenze e così è facile, andando di corsa, sbagliare. Che, come tutti sanno, humanum est, sul perseverare, poi, la questione si fa complicata.
Non mi stupisco, quindi, che nella fretta di stendere questi documenti, la zona della Ferrera sia diventata Ferrara. D'altronde i refusi abbondano anche se la zoppa arena di Conegliano informa pare somigliare più a un lapsus freudiano.
Ma lasciamo perdere, qui stiamo discutendo del PAT, cioè, come recitano i documenti, delle scelte strategiche per il governo del territorio, vale a dire il futuro della nostra città. Un argomento così importante merita serietà, cura e molta attenzione. Si parla di Pianificazione strutturale della città di Conegliano.
La prima impressione è stata che la montagna, come si dice, abbia partorito un topolino, o forse i mustelidi e i piccoli rettili che il PAT si prefigge di proteggere (pag. 125 delle norme tecniche). Siamo sicuri che questi piccoli amici animali troveranno un habitat perfetto nella Amerigo Vespucci che, come tutto il resto della viabilità comunale, nel documento, e quindi nella strategia, non esiste.
2. Il PAT ci dice che non sarà possibile costruire se ciò altera la prospettiva e il pubblico godimento  del quadro storico-ambientale e del contesto figurativo. Si dice anche che, a proposito dei coni visuali, il paesaggio deve essere percepito libero da edificazioni se poi permettiamo di costruire davanti a Monticella da un lato e dall'altro impediamo alla gente di andarsi a godere i famosi coni visuali, per esempio sotto o sulle o intorno alle mura? Dov'è l'intervento strategico?
3. A proposito del centro storico si dice che esso va salvaguardato e conservato, che sono necessari i rilievi archeologici, che bisogna favorire il mantenimento delle funzioni tradizionali, affievolite o minacciate, prima fra queste la residenza della popolazione originaria. Cosa vuol dire tutto questo? Mi sta bene che non si costruisca un bel condominio in Piazza Cima, ma nel concreto, a parte non far crollare gli edifici (tra l'altro per la stragrande maggioranza privati), cosa significa tutto ciò? La popolazione originaria, diciamo meglio gli aborigeni di via XX Settembre, avrà forse delle riserve in cui dare spettacolo per i turisti?
E poi, i turisti, come arriveranno in centro storico, per non parlare del castello?
4. E per gli aborigeni che vivono extra moenia cosa si prevede? Cosa immagina la strategia del Comune nei riguardi dell'edilizia economica e popolare? Ci sono diversi provvedimenti di legge in questo senso, ma nessuno di questi trova spazio nel grande documento che stiamo discutendo. Lo vedremo anche dopo.
5. Rimanendo ancora fuori dagli ATO, fra i beni architettonicamente importanti è completamente sparito il "ponte romano" che molto pomposamente si è dichiarato di voler restaurare e che non esiste nemmeno nei siti a rischio archeologico.
In compenso l'ex scuola elementare di Ogliano, a detta del PAT, è ancora sede del liceo linguistico, in Via Ortigara c'è ancora il centro di salute mentale, a S. Francesco ancora le scuole elementari, non esiste la chiesa di S. Orsola....
6. Gli alberi purtroppo, temo sarà così, non avranno lo stesso destino dei mustelidi degli anfibi e dei piccoli rettili: si segnalano emergenze e si dice che non ci potranno essere abbattimenti ma solo limitati interventi di potatura, ma gli unici alberi monumentali sono in piazza Duca d'Aosta e in via dei Colli. Da qualche parte si prescrive di catalogare altri alberi (ma allora perché avete bocciato la nostra mozione che prevedeva la stessa cosa? Secondo la Legge 10 del 2013 gli alberi monumentali sono anche quelli che presentano un valore ecologico, storico, culturale, religioso, paesaggistico. Tutti gli altri sono un monumento alla bellezza e alla salute.
7. La Grande Guerra. L'argomento, oltre ad essere di grande attualità, è sempre assai luttuoso. È sconvolgente che fra i luoghi segnalati appaia la scuola enologica la cui sede, come si sa, fu inaugurata nel 1924 nientepopodimenoché da Benito Mussolini... Ad essere bombardata fu la vecchia sede nel centro storico, a pochi passi da qui e di cui non c'è più traccia e non ci siano, invece, il Collegio Immacolata e, scusate se è poco, il monumento ai caduti di Piazza IV Novembre (con i nomi di tutti i nostri concittadini morti nella Grande Guerra e il Museo degli Alpini, riconosciuto dalla Regione come luogo simbolo per la conoscenza di quelle vicende.

8. Gli ATO. Solo alcune note, le più eclatanti.
Campolongo: si dice che c'è modesta qualità urbana, con carenza di servizi di quartiere, e poi si dichiara che sui pochi suoli agricoli rimasti bisogna LIMITARE ove possibile l'edificabilità? E si conferma un ambito trasformabile? Io direi Basta cemento e più servizi al quartiere.
Piovesana - Stadio - Zanussi: Nell'area stadio viene inserita come servizio la caserma dei vigili del fuoco... che come sappiamo è da tutt'altra parte.... E poi, quali sarebbero i grandi servizi? Si indica poi anche il macello comunale....che non esiste più da decenni. Non serve commento, sempre che per macello non si indichino la zona di degrado poco prima del semaforo di Via Vital e le case popolari della zona.
Ospedale: Scopriamo ora che fra i servizi sono scomparsi Carabinieri e Guardia di Finanza e che c'è carenza di parcheggi, ma che nulla è stato pensato riguardo allo stato in cui versa la zona dell'ex Caserma San Marco.
Centro storico: scopriamo che la Nostra Famiglia è qui e non  a Costa e che fra i servizi sono scomparse le scuole elementari e medie di Via Sbarra e il luogo in cui siamo. Il Municipio, qui in piazza Cima e tutte le altre sedi, non sono considerati servizi.
Lourdes Monticella: si accenna al traffico sostenuto di Via Lourdes "che condiziona pesantemente l'osmosi tra le aree ad est e ad ovest. Bene, lo sanno bene tutti quelli che vi abitano o transitano. Quindi, cosa si prevede? Di progettare i "vuoti urbani"
Area Zanussi: con la scusa che si tratta di un progetto complesso si prevede che ci possa stare qualsiasi cosa, anche la biblioteca. Ma scusate, non doveva essere alla Marras?
Area ex Fosse Tomasi: Gli indirizzi per il Piano degli Interventi prevedono "La possibile acquisizione di immobili, costituiti da aree da destinare ad uso pubblico ed alla viabilità; in particolare lo svincolo o rotatoria all’incrocio tra la SS. 13 Pontebbana / Viale Matteotti". Rotonda già fatta

Si potrebbe continuare, purtroppo.
A questo punto non si può più parlare di refusi ma di un copia - incolla mal fatto, di errori o dell'idea che tanto nessuno avrebbe letto tante pagine o, peggio, che si tratti di un documento volutamente poco chiaro. Non voglio pensare che sia così, ma questo PAT nel suo complesso fa venire alla mente alcune parole di papa Francesco sull'ipocrisia, quando dice che si tratta di un atteggiamento che non si sa bene come sia, non è luce e non è tenebra, pare non minacciare nessuno, come la serpe, con il fascino del chiaroscuro.

Non lo voglio proprio pensare, penso però che dopo 11 anni qualcuno poteva almeno prendersi la briga di correggere le bozze.

sabato 12 dicembre 2015

Memorie. Cent'anni dopo

Accade un giorno che una persona appena conosciuta ti affida il diario di guerra del nonno.
Cento anni fa un giovane architetto annotò in una piccola agendina impressioni, notizie, sensazioni appena dopo lo scoppio della guerra.
Le mani tremano un po', si tratta di maneggiare un materiale prezioso e delicato, le piccole pagine sono sopravvissute al tempo e all'oblio.
Dalla scrittura minuta e perfetta appaiono l'amore e il rispetto per i propri pensieri, l'abitudine al valore anche di piccoli fogli di carta, la sapienza imparata del non sprecare nulla.
Si apre una lettura che già sa di emozione, condivisione, curiosità.
Qualcuno dirà che i diari della Grande Guerra si somigliano: non è vero, ogni uomo, ogni donna è un essere a sé stante, ogni sguardo vede da una diversa prospettiva, ogni orecchio sente suoni diversi, ogni mano tocca, ogni piede calpesta, ogni cuore palpita diversamente.
Benvenuta anche questa memoria, sarà trattata come si fa coi diamanti.

martedì 8 dicembre 2015

Dove sono finite le nostre ali?

8 dicembre, giornata di festa. A parte la nebbia nella pianura veneto-friulana, non sembra davvero inverno.
I costoni delle Prealpi e delle Alpi Carniche sono brulli, nemmeno sulle Giulie si vede la traccia di recenti nevicate, le creste, quasi eteree, si confondono con il celeste pallido di un cielo che attende ancora un po' prima di diventare azzurro, luminoso, sotto i raggi del sole che illuminano e riscaldano.
Giornata ideale per bighellonare, visitare qualche luogo noto o nuovo, o curioso, passeggiare in prati che non conoscono il fango da un bel po', visto che non piove ormai da tempo immemorabile.
Il cimitero di Palmanova è quasi deserto, ma la cosa è quasi scontata, a quest'ora di un mattino di festa: tanti saranno a Messa, tantissimi in montagna a sciare (sulla neve finta e senza bianchi abeti di contorno), altri chissà.
Palmanova vale sempre la visita: le possenti mura, i sentieri per le bici e le scarpe, la splendida piazza assolata e pedonale, un'attrazione incredibile per i bambini che abbiano voglia di correre e giocare senza rischi. Eppure non c'è quasi nessuno, solo qualche decina di persone che esce dalla Chiesa dopo la celebrazione.
Il sole ci scalda prendendo un aperitivo seduti fuori, chissà dove sono tutti?
Non importa, noi continuiamo la gitarella all'aria aperta: prossima tappa a Gradisca, ancora bastioni cinquecenteschi, il genio di Leonardo chiamato dalla Serenissima preoccupata dei nemici alle porte, un'altra cittadina del profondo Friuli che parla veneziano nei palazzi, nelle strade, nei simboli. Lo scorrere delle acque dell'Isonzo rallegra da un lato e richiama la memoria dei primi tremendi anni della Grande Guerra, della carneficina  del Monte San Michele, appena lì sopra.
Oggi solo pace, sole e tanto verde: tutto invita a stare all'aria aperta, passeggiare, chiacchierare.

È davvero strano: anche qui non c'è quasi nessuno in giro. Possibile che tutti siano chiusi in casa o a sciare?
La risposta, ahinoi, è proprio fra le due città, nei due immensi centri commerciali con i parcheggi pieni di automobili, altre ne stanno arrivando in una continua sequenza.
Ecco dov'erano tutti.
Ci dicono che il PIL sta lentamente risalendo, possibile che l'unico modo per dimostrare nuovo ottimismo sia quello di riversarci tutti insieme, omologati, in luoghi (meglio forse non-luoghi) tutti uguali, vestiti tutti uguali a comprare le stesse cose che quasi sicuramente non ci servono?
Stasera i telegiornali ci mostreranno ancora una volta cittadini trasformati in allegri (fino a quando?) consumatori, muniti di sacchetti o, eventualità ancora peggiore, frequentatori squattrinati di luoghi sberluccicanti che si illudono di far parte della massa festante.
Con giornate come queste, credetemi, gli squattrinati potrebbero almeno prendersi la rivincita sugli altri aprendo le ali del respiro e della voglia di sognare, pensare, guardandosi intorno.
Non costa niente e rende più felici.




domenica 22 novembre 2015

Bruxelles ...e dintorni

Succede di essere in volo da Bruxelles verso Venezia la sera di venerdì 13 novembre e di atterrare verso le 22.30.
Trenta amministratori di ritorno da un viaggio istruttivo, stimolante, concepito per capire meglio come funziona e come far funzionare meglio la grande casa di tutti noi: ognuno portava a casa un'esperienza nuova, la volontà di condividere le informazioni con gli altri amministratori, con i cittadini. Ognuno era felice per aver condiviso momenti di studio, confronto e di divertimento, tutti avevamo rinsaldato o costruito rapporti personali.
Baci e abbracci prima di uscire dall'aeroporto, gli ultimi saluti mentre i telefoni si accendevano: poi le notizie, tremende, sconvolgenti, raggelanti da Parigi.
Lo sbigottimento si è fatto più grande quando, qualche giorno dopo, si è scoperto che proprio nella capitale belga (ed europea) c'è il covo più pericoloso dei terroristi.
Chissà, camminando per le strade, mentre salivamo nella metropolitana all'ora di punta, durante i nostri allegri e innocenti cori nella Grande Place, forse abbiamo sfiorato l'incontro con gli assassini.
La città che si stava preparando per festeggiare San Nicolò, con le vetrine scintillanti di cioccolata e addobbi già natalizi, ora è piombata nell'oscurità della paura.
Lungi dall'aggiungermi alla schiera di esperti di geopolitica dell'ultima ora, ancora più lontana da chi predica odio e violenza scimmiottando maldestramente il linguaggio degli assassini dell'Isis, ripropongo qualcuna delle riflessioni che avevo nella testa prima che tutto ciò accadesse.
Bruxelles è una città cosmopolita, piena di persone provenienti da ogni dove, piena di ex italiani e di camerieri e commessi che volentieri si sforzano di parlare la nostra lingua, è diventata il cuore dell'Europa, è una specie di Washington, ma noi Europei (e soprattutto chi governa questo grande insieme) non ce ne rendiamo conto. Le istituzioni, come era ovvio che fosse, hanno accolto un po' delle tradizioni politiche di ciascuno: ciò che si è perso, purtroppo, è il primato vero della politica, dando troppo spazio ai regolamenti, all'idea di un potere asettico che diventa, per forza, arido, impotente e lontano.
Noi Italiani conosciamo bene lo sport della denigrazione del nostro Paese, ma forse abbiamo qualcosa da insegnare: ritengo inconcepibile che a nessuno dei passeggeri che hanno passato il check in dell'aeroporto internazionale di Bruxelles Zaventem, pieno di gente il venerdì sera, né a quelli che sono saliti sul mio stesso volo sia stato chiesto un documento di riconoscimento: agghiacciante. Per entrare nelle tre sedi dell'Europa che ho visitato, pur essendo in una lista precedentemente fatta pervenire, non solo ci hanno chiesto ogni volta le carte d'identità ma ci hanno fatto passare attraverso il body scanner: la cosa mi era parsa del tutto normale. Meno normale che intorno alle sedi ci fosse solo qualche soldato, e vicino al Parlamento Europeo nemmeno quello. Una bella sensazione di libertà, non c'è che dire, l'idea di essere a casa propria, la volontà di affermare, forse, la fiducia verso il prossimo dei paesi nordici. Ma perché tanta sicurezza all'interno e così poca lì intorno?
E ancora: l'ingresso della Commissione Europea (come dire il Congresso USA, o la Casa Bianca, all'incirca) è proprio all'uscita della metropolitana, non serve nemmeno uscire in strada. Ottima cosa per evitare di bagnarsi, ma...
Non mi dilungo oltre, se non per dire che l'Europa è la nostra casa, un grande condominio complicato che, secondo me, ha tanto bisogno di politica, quella vera, ha tanto bisogno di Italia, con la nostra capacità di inventare soluzioni, di non fermarci davanti a un regolamento.
Fuori da un ingresso del Parlamento Europeo di Bruxelles è conservato un pezzo del muro di Berlino. Deve rimanere un monito: i muri non servono, soprattutto per fermare le idee e i sogni, meglio avere le porte. Sorvegliate.


giovedì 5 novembre 2015

200 giorni di caos per una rotonda?

Un calvario. Dalla scorsa estate chiunque si avventuri nei pressi dell'incrocio fra Via Matteotti e Viale Italia deve mettersi preventivamente l'animo in pace, la coda snervante è assicurata: i lavori per la realizzazione della rotatoria vanno piano, lenti, lentissimi. L'appalto prevede 200 giorni (più di sei mesi) per la consegna, nel frattempo si sono susseguite ordinanze per la deviazione del traffico, la realtà è che soprattutto nelle ore di punta passare di là è un incubo, così come per gli abitanti di Campolongo, che si ritrovano a vivere non in un quartiere residenziale ma lungo un'arteria di scorrimento...
Per questo ho presentato l'interpellanza che segue, sperando che l'assessore non ci metta altri 200 giorni per rispondere...
 
Oggetto: interpellanza sull'andamento dei lavori della rotatoria fra Via Matteotti e Viale Italia


PREMESSO CHE

  • Con Determinazione n. 51 del 23 gennaio 2015 veniva aggiudicata definitivamente la realizzazione di una rotatoria all'intersezione fra Via Matteotti e Viale Italia alla ditta Pasin Costruzioni Stradali di Pasin Karim & C. di Ponzano Veneto
  • Lo stesso appalto prevede la realizzazione dell'opera in 200 giorni naturali e consecutivi decorrenti dalla data di consegna dei lavori, cioè più di sei mesi
  • In data 23 giugno u.s., con Ordinanza n. 162 veniva data autorizzazione alla stessa ditta aggiudicatrice di predisporre la segnaletica per la deviazione del traffico cittadino

CONSIDERATO CHE,
- La rotatoria è situata in un'area ad altissimo flusso di traffico dovuto anche alla vicinanza del Casello dell'A27 di San Vendemiano
- Dall'inizio dei lavori gli ingorghi, soprattutto nelle ore di punta, sono all'ordine del giorno, con grave danno per gli automobilisti e per quanti comunque transitano in prossimità del cantiere
- Per cercare di evitare le code molti usufruiscono di percorsi alternativi come Via Santa Rosa e Via Monticano, aggravando il traffico e la pericolosità di un quartiere a vocazione residenziale come Via Monticano
- Il termine di 200 giorni risulta molto lungo, soprattutto in vista della brutta stagione e dell'avvicinarsi delle Festività Natalizie, che notoriamente vedono un aumento considerevole del traffico
Il sottoscritto consigliere CHIEDE:
Se questa Amministrazione abbia compiuto verifiche sull’adeguatezza del cantiere e del personale impiegato nello svolgimento delle opere.
Se e come questa amministrazione abbia pensato di far accelerare i lavori o di porre in atto misure atte ad evitare il ripetersi continuo di ingorghi in una zona così delicata per quanti entrano ed escono dalla città

mercoledì 4 novembre 2015

4 novembre. Per non dimenticare

4 Novembre. In questo centenario appena iniziato, vorrei che questa data servisse per comprendere cosa fu davvero quell'immane carneficina, cosa lasciò in chi sopravvisse e in chi subì comunque lutti, distruzione, fame.
Dedico a tutti alcune righe del mio romanzo "Tre volte trenta": il Montello, Colfosco, il Piave, la rincorsa dei ragazzi del '99, giovani che divennero uomini a tappe forzate.

Nell’autunno ormai inoltrato la nebbia ricopriva nuovamente gli spettri della campagna da cui affioravano, rari e guardinghi, i ruderi dei campanili. Da quasi un anno mancavano, in quel lembo del pianeta, voci e attività umane che non fossero la quotidianità dei cannoni e dei proiettili. Da più parti si ipotizzava quale sarebbe stata la data fatidica che tutti aspettavano. Il fiume, ogni giorno più minaccioso, pareva prendersi gioco delle strategie e della credibilità dei comandi, convinto ad affermare ancora una volta la propria autorità su tutti loro. Lui, il Piave, avrebbe deciso.
I pontieri si preparavano al momento in cui il coraggio avrebbe dovuto superare ogni limite prima raggiunto, sarebbero stati i primi a sfidare il destino e la volontà del fiume, la natura.
La tensione aumentava, tenendo ogni uomo all’erta, pronto ad agire, a muoversi, a lanciarsi oltre. Qua e là, lungo il confine, si vedevano le prove dell’artiglieria, la dimostrazione dei muscoli che avrebbero, domani, sovrastato l’avversario riducendolo ad una massa di sconfitti in fuga. Le brigate che per ultime avevano attraversato il Piave un anno prima, da lepri si sarebbero trasformate in cacciatori, rincorrendo lungo la stessa strada quanti li avevano costretti alla fuga. Soldati e camion si sarebbero incolonnati, ma per un percorso inverso.
In un crudele e ineluttabile gioco delle parti stavolta sarebbe toccato ai vinti del 1917 trasformarsi, almeno per un po’, in vincitori, tutti poco più che ragazzi.
L’esperienza aveva insegnato che ogni attacco, ogni battaglia importante aveva inizio nelle prime ore del giorno, quando l’alba è ancora lontana ed il buio regna sovrano e incontrastato; ognuno temeva e desiderava essere di sentinella durante la notte, sentire l’adrenalina, la tensione, quasi la speranza di essere il primo testimone del cambiamento, dell’uscita da quell’immobile estenuante angoscia.
In quelle condizioni era facile perdere la cognizione del tempo, dimenticare la sequenza del passare delle ore, e con loro quello dei giorni.
La pioggia incessante consegnava una nauseante sensazione di uniformità, di stantia ed immobile omogeneità ai corpi ed alle menti di migliaia di uomini assiepati lungo quel fronte che pareva non volersi interrompere mai, nascosti dietro un numero immenso di mitragliatrici, bombarde, cannoni.
Fermi, inzuppati fin nelle ossa da un’acqua che la faceva da padrona sopra e sotto i loro piedi, tutti in attesa di ciò che doveva accadere.
Apnea, tensione, incertezza e pensieri sospesi fra la speranza e la paura.
La notte fra il 23 e il 24 ottobre, Vincenzo e Francesco montavano di guardia. Insieme, ancora una volta, contenti di essere arrivati fin là, di poter sognare insieme il ritorno a casa, di immaginare la costruzione dei loro sogni.
Un anno prima il tempo era come in quei giorni, e in quella valle incassata in mezzo ai monti l’acqua era ancora più scrosciante, più terribile l’angoscia, più forte la sensazione di essere in trappola.
Ora l’orizzonte era molto più vasto, e quelli che avevano raccontato tante volte quella battaglia, e la ritirata, ed i compagni morti nel sonno, e la marcia infinita di uomini stanchi, sfiduciati, braccati dai nemici e minacciati da una giustizia militare ottusa e colpevole, tornarono a narrare, cercando così di scacciare quei fantasmi che temevano di trovare ancora sulla loro strada.
Dopo un anno quella guerra era ancora lì, tutti loro, quelli che erano rimasti, erano ancora lì, inchiodati sulle trincee a guardia di quel fiume, che aveva ormai inghiottito troppi poveri corpi, che non aveva ancora permesso a nessuno di passare oltre.
Dopo un anno tutti dicevano che stava per scoccare l’ora della fine, che gli eserciti avrebbero entro poco abbandonato il fronte.
Nel buio della notte, che verso la fine di ottobre è ormai lunga, si udirono strani rumori mescolati allo scrosciare della pioggia, stelle surreali si accesero in direzione del Monte Grappa. I fuochi della prima battaglia, in perfetta sintonia con l’anniversario, avevano dato la stura all’inizio della fine. Non sul fiume, ma sulla grande montagna che lo guarda da lontano si cominciava a sparare. Sperando che quelli accesi per primi fossero i fuochi delle artiglierie italiane. Molti sarebbero morti anche stavolta, forse sarebbero stati gli ultimi.
Nemmeno il tempo di dare l’allarme e i boati giunsero anche dal fiume, ma più a valle, in mezzo all’acqua. I pontieri, come in un miracolo, permisero di dare fuoco al fiume.
Loro, i fanti del Montello, rimanevano al loro posto, fermi in attesa.
Vincenzo e Francesco si strinsero la mano e raggiunsero la loro postazione, immaginando che da quel momento in poi il riposo sarebbe stato una chimera.
[...]
 
27 ottobre, ma il loro momento non era ancora giunto. La linea azzurra di confine era in quei giorni un fiume in piena, limaccioso, pericoloso, che di corsa scendeva dai monti cercando di raggiungere presto il mare dove gettarsi impetuosamente, dove cercare riposo, finalmente, dove andare a rigenerarsi, dove scaricare e abbandonare il carico di lutti e di orrore che portava con sé.
Poco più a monte si stava consumando un’altra carneficina, così vicina che il fragore delle detonazioni e il frastuono provocato dall’impeto dell’acqua parevano amplificare le voci dei soldati che urlavano, cadevano, imprecavano, si scavalcavano l’un l’altro correndo per raggiungere l’altra riva, per varcare il confine.
Il Piave, inesorabile, correva all’impazzata, sulla cresta delle onde luccicavano elmetti strappati a qualcuno che non avrebbe visto la fine di quella giornata, che non avrebbe partecipato alla sconfitta e nemmeno alla gloria di quanti, poi, avrebbero saputo di essere stati i primi a far tornare italiana la sponda sinistra del fiume.
L’attesa, per chi da un momento all’altro avrebbe seguito le orme degli altri, buttandosi a capofitto verso il fiume, per attraversarlo dopo un anno, significava poche frasi pronunciate, molta fatica a respirare, i morsi dell’acido lattico lungo i muscoli, il pensiero che correva, inevitabile, verso la paura di non farcela proprio alla fine, di subire la beffa di rimanere lì per sempre nel giorno in cui tutto sarebbe cambiato.
[...]
 
Fu l’ultima giornata di trincea, le ultime ore trascorse in quella che per mesi era stata l’unica realtà, l’unica misura del vivere e del morire, l’unico ricovero, l’unico, pericoloso e nauseabondo rifugio.
Al di là del fiume c’era un altro mondo, una terra sospesa, un nemico che, forse, si sarebbe arreso e avrebbe tentato la fuga attraverso le macchie di foresta che si intuivano da lontano.
I fanti passarono la notte in un finto riposo, seduti per terra, l’elmetto in testa e il capo appoggiato al fucile, piantato per terra in mezzo alle gambe. Sottovoce qualcuno pregava, qualcun altro imprecava, altri ancora stavano in silenzio, assorti nel comune pensiero, più che altro una speranza, che quei giorni sarebbero stati gli ultimi trascorsi da soldati.
In quell’umanità sfinita la parola vittoria non assumeva ancora un significato preciso, avrebbero vinto quando il loro destino sarebbe stato chiaro. L’essere soldati, in qualche modo, aveva significato un’identità, una comunanza di obiettivi; l’obbedienza aveva costretto tutti a ricacciare indietro vecchie aspirazioni, lati pungenti del carattere, capacità e volontà di scelta.
Per mesi, alcuni per anni, avevano imparato a non pensare, soprattutto a non esprimere i pensieri. Tornare a casa avrebbe significato anche questo, dover nuovamente decidere.
E tornare, nell’incertezza di ciò che avrebbero ritrovato, nell’insicurezza di trovare qualcuno ad attenderli, nel dubbio di riuscire a dimenticare in fretta per rituffarsi nella vita quotidiana, non era una prospettiva facile.
C’era chi aveva la sua casa in quella terra ancora invasa, e non vi avrebbe trovato forse niente e nessuno, nemmeno i muri, e sarebbe stato costretto a riprendere il viaggio, o ad aspettare senza sapere chi e quando sarebbe arrivato.
La guerra era stata dura, difficile e tremenda, ma la sua fine non appariva molto più semplice: aveva segnato per sempre la vita di ognuno, lasciava tracce e ferite indelebili nei corpi e negli animi, consegnava un futuro di incertezza.
[...]
Dopo giorni la pioggia era cessata, lasciando posto ad un’aria nuova, che scendeva a valle lungo il letto del fiume.
In tempi normali avrebbe trasportato l’odore dell’erba macerata nell’acqua del Piave, il profumo del bosco d’autunno, l’aroma fragrante delle castagne arrostite, l’odore invitante della legna arsa nei focolari.
Per quel popolo in armi fu il segnale: cominciava la grande corsa, la rincorsa del nemico.
L’acqua, tumultuosa e assordante nel suo scorrere impetuoso, rischiava di travolgere da un momento all’altro i ponti gettati e con essi quanti vi si trovavano sopra, era fredda, ma non c’era tempo per rendersene conto, era pericolosa, ma nessuno sembrava essersene accorto.
La riva sinistra era finalmente lì, a portata di mano, sul greto affioravano cadaveri con divise diverse, affiancati e accomunati da un medesimo destino.
Bisognava, come sempre, passare oltre, non era quello il tempo della pietà. 
[...]
Corsero per ore, sparando e rincorrendo, rincorrendo e sparando. Quel pezzo d’Italia era troppo simile a quello che avevano appena lasciato. Ovunque trincee, fangose e marce come le loro, armi abbandonate all’improvviso, uomini a terra morti o agonizzanti, reticolati, resti di postazioni d’artiglieria ormai inutili, dappertutto testimonianza di alberi sradicati, campi devastati, ruderi di abitazioni, segni di incendi appiccati che nessuno aveva tentato di spegnere.
Non c’era tempo per rendersi conto della dolcezza di quei saliscendi ora aspri ora lievi, scomparso quasi ogni segno della collina coltivata, del lavoro instancabile che per secoli i contadini avevano compiuto coltivando declivi dove era difficile imbrigliare l’acqua, dove viti e granoturco soffrivano la sete.
Non c’era più tempo per nulla: tutto un esercito rimasto fermo per troppi mesi ora percorreva chilometri in poche ore, attraversava fossi e campi, aie sconvolte e borghi ormai irriconoscibili.
La cima di ogni altura era un osservatorio nemico, a volte abbandonato repentinamente e a volte difeso strenuamente da chi era costretto da qualche strano ordine a non accettare il proprio destino.
I nomi prima solo sentiti e letti nelle mappe del tenente ora divenivano realtà: villa Jacur, con quel nome un poco esotico, il Colle della Guarda, San Daniele divennero luoghi veri.
[...]
Nelle case abbandonate, dagli anfratti del terreno, emergevano testimonianze recenti dell’occupazione: brande, resti di cucine da campo, armi spesso rese inservibili, qualche soldato impaurito che chiedeva pietà, conscio della propria debolezza, sfinito da un’immane stanchezza.Gli sparuti drappelli della popolazione rimasta osservavano quel continuo passaggio di uomini in armi con rinnovata fiducia, ma con il disincanto di chi ne ha già viste tante, e non osa ancora essere felice, ha paura di sperare, teme la disillusione.
Il mondo si era nuovamente rovesciato, la guerra stava quindi per finire davvero, quei giovani stanchi, divenuti in poco tempo uomini e veterani, quei soldati tremendamente provati da anni di guerra avrebbero dovuto convincersi di essere i vincitori.
Parola importante, vittoria, che per tutti loro aveva un solo significato: tornare a casa, per sempre.




domenica 1 novembre 2015

Bresilia e Libia, la storia in cimitero

Ecco un cimitero di paese, dove le tombe dei ricchi sono poche e riconosciute da tutti, ma le altre, vecchie o nuove che siano, parlano di una devozione popolare sentita, intensa, che in questi giorni trasforma il camposanto in un tripudio di colori vivissimi.
Un tempo i morti si mettevano sotto terra, chi poteva costruiva la tomba che avrebbe accolto un po' alla volta i nonni, i figli, le mogli... Abili mani di scalpellini e marmisti davano forma a quello che, almeno per l'ultimo viaggio, rappresentava la cifra, lo stile, la caratteristica di una famiglia.
Poi sono venuti i colombai, quando la terra si dimostrò ormai insufficiente ad ospitare tutti, ma anche qui ciascuno ha scelto un marmo, delle lettere, vasi e lumi, parole di ricordo ed eterne promesse.
Ci si trova fra vivi, in cimitero, e sulle lapidi si incontrano visi ormai dimenticati, facce che ci rammentano all'improvviso episodi, amicizie, storie di paese.
Vecchie foto in bianco e nero mostrano bimbi, giovani e anziani, donne che paiono vecchissime ...e poi vedi che quelle facce sfatte avevano poco più di cinquant'anni, vissuti e tribolati come fossero almeno il doppio.
Il cimitero di paese parla del mondo contadino, quando la fotografia serviva ad immortalare momenti speciali, quando per farla si prendeva l'unico vestito buono, gli uomini mettevano il cappello e si lisciavano i baffi e le donne esibivano qualche ornamento, un fazzolettino, una camicia bianca....
Dietro a tutto questo, occhi e rughe che parlano di lavoro diuturno, innumerevoli parti, guerre che non finivano mai e tante partenze, che significavano insieme disperazione e speranza.
Partirono in tanti, a fine Ottocento, sognando quella che per tutti era la "Merica", partirono spopolando interi paesi, borghi sparsi in collina e in una pianura che appariva spesso troppo desolata per continuare a viverci.
In un'Italia ancora troppo analfabeta, né la gente né gli ufficiali d'anagrafe avevano dimestichezza con la lingua, tanto meno con parole e luoghi strani e foresti: nel 1890 nacque una bimba, forse il suo papà era da poco partito per la Merica su una nave diretta in Brasile, forse era riuscito a mandare una lettera, un racconto di speranza. Me la immagino, l'ostetrica chiamata di corsa in piena notte, mi immagino lo sforzo di andare a registrare la nascita a quell'impiegato che, nell'incertezza ortografica imperante pensò bene di aggiungere uno svolazzo di fantasia: la piccolina si chiamò Bresilia, quasi come la capitale di quell'immenso paese, che però fu fondata molti decenni dopo. Chissà le la piccola vide mai il suo papà, chissà se seppe mai di aver anticipato la storia di una città costruita a tavolino: lei era nata per caso.
Venne il riscatto, o almeno così parve a quanti, col nuovo secolo, immaginarono un'Italia forte e combattiva, anch'essa con le colonie dove andare a lavorare da padroni e non da servi, con una nuova terra che prometteva faville. Così non fu, lo sappiamo, ma nel ribollente 1914, qualche giorno dopo Sarajevo, nello stesso paese di Bresilia nacque Libia, nome altisonante e simbolo di vittoria.
Di lì a un anno il papà di Libia fu sicuramente chiamato a combattere sull'Isonzo o sul Grappa, sul Pasubio o la Marmolada. Chissà se riuscì a giungere fino al Piave e tornare a casa: magari, se gli nacque un altro figlio lo chiamò Vittorio.
Ora sono tutti raccolti in quella lunga serie di immagini, ricordi un po' sbiaditi.
Bresilia e Libia sono, almeno in questi giorni, circondate di profumo e colori.


domenica 25 ottobre 2015

Le bugie hanno le gambe corte (a proposito di bici)

Scuse, sempre scuse, continuamente scuse. A Conegliano qualsiasi problema è colpa o del destino cinico e baro o di qualcun altro.
A volte addirittura si fa finta di non ricordare che a governare la città sono sempre gli stessi almeno da vent'anni a questa parte: per confondere le acque, buona per ogni occasione è la lamentela verso "Roma", il governo, l'Europa, l'ONU, le macchie solari...
Questa città manca di idee (anche quelle che spesso non costano nulla se non la voglia di pensare) da decenni, il declino è visibile a ciascuno, ma chi ha amministrato e continua a farlo non ha mai nessuna responsabilità. Possibile? No, ovviamente, ma vorrebbero convincerci del contrario.
Non è nemmeno il caso di ricordare i finanziamenti persi, le occasioni lasciate, i milioni di euro fatti pagare alla collettività: a tutto questo si aggiunge la convinzione di sapere già tutto, la mania di smentire quanto annunciato prima, tanto, si sa, la gente ha la memoria corta...
Basta, signor Sindaco, per favore: bene ha fatto la presidente di Liberalabici a dirle che sarebbe stato meglio, ieri pomeriggio, fermarsi ad ascoltare i tecnici della FIAB (Federazione Italiana Amici della Bicicletta), invece di arrivare, parlare dando la colpa di tutto al governo ed andarsene. Anche chi non governa con lei, anche quanti aderiscono ad associazioni libere hanno idee, spunti, proposte, professionalità che offrono quasi sempre gratis a quegli amministratori che abbiano la voglia e l'umiltà di ascoltare. 
L'ultima pista ciclabile inaugurata in pompa magna ha dimostrato criticità assurde (Viale Venezia e bretella di Parè), stendiamo un velo pietoso sulla vicenda del Menarè, nella rotonda tra Viale Battisti e Via Pittoni ci si è candidamente "dimenticati" della pista ciclabile: altro che "GiraMonticano"!!!!
A Conegliano non si è MAI fatta nessuna politica vera per una mobilità sostenibile e per incentivare l'uso della bicicletta e dei mezzi pubblici; a chi chiedeva, per esempio, di creare zone (nei quartieri residenziali) a velocità ridotta a 30 km/h per favorire i pedoni, gli anziani, i ciclisti, i bambini, avete risposto che è meglio correre (???); dopo aver votato una mozione che chiedeva la predisposizione di tettoie per le bici davanti alle scuole.... nessuno ne ha saputo più nulla.
Potremmo continuare a lungo.
Ora basta, invece di dare sempre la colpa al famigerato patto di stabilità, che non c'entra proprio nulla, ci dica una buona volta la verità: preferite una città a misura di automobile (possibilmente potente), in cui alberi, parchi, biciclette e pedoni sono solo un antipatico ingombro.

venerdì 23 ottobre 2015

Non c'è pace per le case popolari

I mesi passano e nulla si muove sul fronte di Conegliano Servizi e delle case popolari di Conegliano.
Niente firma, già annunciata, della convenzione con ATER di Treviso per la gestione degli alloggi, niente nomina del liquidatore di Conegliano Servizi: i mesi passano e i problemi degli inquilini rimangono. L'unica cosa che si è mossa, intanto, è la richiesta degli arretrati delle spese condominiali mai richieste per anni. Ma a Conegliano, si sa, non è mai colpa di nessuno e a pagare sono i cittadini.
Ho presentato l'ennesima interpellanza, che sarà discussa mercoledì prossimo, 28 ottobre, in Consiglio Comunale.

Conegliano, 17/102015


Oggetto: interpellanza sulla liquidazione di Conegliano Servizi, affidamento ad ATER della gestione degli alloggi pubblici e situazione degli alloggi popolari

PREMESSO CHE

  • Ormai da troppo tempo tutte le questioni riguardanti gli alloggi popolari e di ERP giacciono irrisolte

CONSIDERATO CHE,
  • Il 23 febbraio scorso il Consiglio Comunale ha approvato la messa in liquidazione di Conegliano Servizi
  • Il 28 maggio u.s. la Giunta, con delibera n. 235, ha dichiarato l'intenzione di affidare all'ATER di Treviso la gestione degli alloggi di E.R.P. Di Conegliano
  • Si sta avvicinando nuovamente la stagione invernale, durante la quale si aggravano le situazioni già precarie di molti alloggi
Il sottoscritto consigliere CHIEDE:
  • Quando questa Amministrazione intenda nominare il liquidatore di Conegliano Servizi
  • A che punto sia la firma della convenzione con ATER per la gestione degli alloggi
  • In quale modo si intenda affrontare, durante la troppo lunga fase di passaggio di gestione, il tema della manutenzione degli alloggi più ammalorati
  • Se e come questa Amministrazione intenda risolvere al più presto l'intollerabile situazione degli alloggi di Via Lotti.

lunedì 19 ottobre 2015

Scuole materne di serie B?

Dopo segnalazione di alcuni genitori della Scuola Materna di Via Matteotti, mi sono recata di persona a verificare la situazione: inqualificabile.
Per questo ho presentato la seguente interpellanza:





Conegliano, 16/10/2015
Oggetto: interpellanza urgente sullo stato in cui versa il giardino della Scuola Materna di Via Matteotti


PREMESSO CHE

  • Il diritto al gioco è fondamentale per la crescita e l'educazione dei bambini
  • La loro sicurezza deve essere garantita al massimo, così come la tranquillità degli adulti preposti alla loro sorveglianza

CONSIDERATO CHE,
  • La Scuola Materna di Via Matteotti e nella fattispecie la parte esterna presentano serie criticità, di seguito esposte:
a) Accanto all'ingresso principale una buca è stata malamente coperta con una vecchia porta di ferro arrugginita
b) Non è stato eseguito lo sfalcio della siepe, ricettacolo di insetti (oggi pare sia stato finalmente rimosso un nido di vespe da un gioco esterno)
c) Ormai da mesi da un albero al centro del giardino esce un liquido schiumoso bianco di cui è sconosciuta l'origine e quindi la pianta è stata recintata
d) Diversi giochi sono mal ridotti, pericolosi e sono stati recintati con del nastro per cercare di evitare che i bambini possano farsi male
e) in un muro esterno è comparsa una crepa che pare avere anche dell'umidità
g) è stato messo dell'altro nastro per evitare che i bambini escano in giardino, vista la pericolosità generale di un ambiente che dovrebbe essere invece il luogo preferito per il gioco
Il sottoscritto consigliere CHIEDE:
Quando questa Amministrazione intenda porre in essere le necessarie misure per mettere in sicurezza tutta la parte esterna della scuola, rendendo i giochi sicuri, eliminando il pericolo dovuto al ferro arrugginito, controllando lo stato dell'albero centrale.





venerdì 16 ottobre 2015

Alberi di Conegliano: bocciati dall'Amministrazione

Andiamo con ordine: ieri sera in Consiglio Comunale c'erano all'odg due mozioni della minoranza, una che chiedeva di inserire nel nuovo PAT i termini della Legge Regionale contro il consumo di nuovo suolo (bocciata dalla maggioranza, perché loro ci pensano già...), l'altra che chiedeva di monitorare e salvaguardare i grandi alberi della città, bocciata, ovviamente, come ogni proposta che venga dalla minoranza.
Non mi soffermo sull'atteggiamento annoiato dell'intera maggioranza o all'intervento incomprensibile e scomposto di qualcuno riguardo ad un tema come quello degli alberi, preferisco dire due parole sulla questione in sé.
Molti degli alberi che ornano la città stanno soffrendo e rischiano di diventare anche un pericolo, troppi alberi sono stati tagliati ma ancora non ne abbiamo visti di nuovi al loro posto, altri verranno eliminati ma a questo punto è forte il timore che al loro posto rimarrà il vuoto.
Pare che a Conegliano non servano i pareri degli esperti, noi siamo tutti bravissimi e anche in questo campo, purtroppo, non si pensa che sia importante affidarsi a dei professionisti: andiamo avanti a spanne.
L'Europa lancia delle gare fra le città europee per promuovere le buone pratiche rispetto al verde urbano? Chi se ne importa, troppa fatica inseguire Bruxelles, noi stiamo bene così. Parliamo male dell'Europa salvo dimenticarci quanto di buono, utile e interessante ci giunga da lì. Occorrerebbe magari un guizzo di novità, un po' di buona volontà, soprattutto quella di uscire dall'asfissiante provincialismo che ci opprime. 
Il Liceo Scientifico e il Soroptimist anni fa idearono un bellissimo progetto sui grandi alberi della città, che puntava proprio alla loro conoscenza e ad insegnare ad amare e proteggere questi meravigliosi monumenti della natura: grandi applausi ai ragazzi, agli insegnanti, agli organizzatori, grandi proclami, e poi? Il nulla. Non c'è niente di più grave che illudere i ragazzi: che esempio diamo loro? Vogliamo dare ragione a quanti dicono che la politica parla in un modo ed agisce in un altro?
Concludendo, escludendo l'amarezza per il modo in cui si gestisce il dibattito politico nel luogo di più alta espressione democratica della città, il nostro impegno per la salvaguardia del patrimonio ambientale non verrà meno. Siamo grati ai cittadini che hanno partecipato alla nostra inziativa di sabato scorso e a quelli che continueranno a seguirci.
Ci auguriamo soprattutto che, a causa dell'incuria, non si verifichino danni a cose o persone derivati dal crollo improvviso di qualche albero ammalato a causa, ancora una volta, degli errori e dell'imperizia umana.

martedì 13 ottobre 2015

E i soldi per la ex caserma Marras?

Dopo tanti annunci e dopo lo stanziamento nel Bilancio comunale del denaro per mettere in sicurezza il tetto dell'ex Caserma Marras, ad oggi nulla di nuovo. Nessun lavoro in vista. Sta arrivando nuovamente l'inverno: vogliamo mandare definitivamente in malora un altro pezzo del patrimonio della città?
Per questo ho presentato interpellanza al Sindaco, che mi risponderà nella seduta del Consiglio Comunale del prossimo 15 ottobre.
 








Oggetto: interpellanza sullo stato dei lavori per la ex caserma Marras


PREMESSO CHE

  • Dal 2007 esiste un progetto per il restauro e la valorizzazione dell'intero complesso dell'ex Caserma Marras, approvato anche dalla Soprintendenza, reso esecutivo e mai finanziato
  • Nel corso degli anni la situazione dell'intero manufatto si è ulteriormente degradata e che più volte è stato lanciato l'allarme per lo stato di sicurezza del tetto

CONSIDERATO CHE,
  • In fase di approntamento del Bilancio triennale e nella previsione questa Amministrazione ha annunciato l'investimento di € 550.000 per il recupero del tetto della suddetta ex caserma
  • Il piano triennale delle opere pubbliche approvato dal Consiglio Comunale il 20 aprile scorso prevedeva, nella stima dei tempi di esecuzione, inizio nel secondo trimestre del 2015 e termine nel primo trimestre del 2016
  • Stiamo andando incontro ad un'altra stagione invernale, che vedrà l'acuirsi dei problemi di staticità già esistenti
Il sottoscritto consigliere CHIEDE:
  • Come mai, a tutt'oggi, non si veda nessuna traccia dell'inizio dei lavori di restauro di uno dei luoghi considerati anche da questa Giunta prioritari per il futuro della città
  • A che punto sia la predisposizione del progetto e dell'affidamento dei lavori per la messa in sicurezza del tetto dell'ex Caserma Marras

martedì 6 ottobre 2015

Alberi condannati

Ancora una volta a Conegliano si parla di alberi da tagliare, dopo i platani della Pontebbana, gli alberi della Calpena e il pioppo centenario dell'Enologia, adesso sono a rischio i cipressi del cimitero, ci si è accorti che erano malati poco prima che fossero irrecuperabili.
E la storia si ripete a distanza di qualche mese: alberi di tutti i cittadini che invecchiano, sono mal curati, devono essere eliminati e poi non vengono sostituiti.
E' drammatico che fino ad ora, nonostante i proclami, nessun altro albero sia stato piantato al posto di quelli tagliati, col risultato che, oltre tutto, i luoghi sono diventati più brutti: cosa accadrà in Viale Gorizia e in Via Pittoni? Prima di abbattere questi "grandi vecchi" è necessario avere gli alberi nuovi da sostituire!
Conegliano non ha ancora una mappatura degli alberi presenti in città, non esiste una relazione formulata da esperti agronomi sul loro stato di salute, con tutta evidenza questi non sono stati consultati prima di procedere a qualsiasi intervento sugli e intorno agli alberi.
Noi chiediamo che gli alberi vengano salvaguardati perché sono patrimonio di tutti e chiediamo prima di tutto di sapere quanti sono e come stanno. Prima di procedere a qualsiasi intervento che ne mini la salute è necessario interpellare chi ne ha le competenze.
Per questo il PD di Conegliano organizza per

SABATO 10 OTTOBRE DALLE ORE 14.30
UN INCONTRO E UNA VISITA AD ALCUNI DEI GRANDI ALBERI DELLA CITTA'

Ore 14,30
Informagiovani, Biscione, P.le Zoppas: Gli alberi sono un patrimonio prezioso, vanno conosciuti, rispettati e curati, incontro con il dott. Claudio Corazzin, agronomo.
Ore 15,45
Partenza della passeggiata, guidati dal dott. Corazzin, per osservare con occhi nuovi il grande cedro di Viale Vittorio Emanuele, gli ippocastani del “Salisà”, il plurisecolare cipresso di Piazza Duca d'Aosta, i tigli di Viale Spellanzon...
Alla fine, ritrovo – incontro dove c'era il grande pioppo dell'Enologia.

martedì 29 settembre 2015

SALVIAMO GLI ALBERI DI CONEGLIANO

Quello del secolare "pioppo dell'Enologia" è solo l'ultimo di una lunga serie di episodi che testimoniano della poca cura riservata agli alberi nella nostra città.
Conegliano è da sempre famosa per le bellezze storiche intimamente legate al verde, che non solo la circonda ma ne è parte integrante.
Gli alberi, fra l'altro, sono una grande riserva di salute per tutti.
Ogni volta che si parla di tagliare alberi, perché considerati pericolosi, si afferma la volontà d piantarne altri... la realtà ci dice che rimane solo il vuoto, basti pensare a Viale Gorizia, alla Calpena, a Viale XXVIII Aprile....
Conegliano non ha ancora una mappatura esatta degli alberi storici, tanto meno del loro stato di salute.
Crediamo sia importante che i cittadini conoscano un patrimonio che è di tutti per contribuire a salvarlo.
Per questo il Circolo del PD di Conegliano organizza, per
SABATO 10 OTTOBRE DALLE ORE 14.30
UN INCONTRO E UNA VISITA AD ALCUNI DEI GRANDI 

ALBERI DELLA CITTA'

Ore 14,30
Informagiovani, Biscione, P.le Zoppas: Gli alberi sono un patrimonio prezioso, vanno conosciuti, rispettati e curati, incontro con il dott. Claudio Corrazzin, agronomo.
Ore 15,45
Partenza della passeggiata, guidati dal dott. Corazzin, per osservare con occhi nuovi il grande cedro di Viale Vittorio Emanuele, gli ippocastani del “Salisà”, il plurisecolare cipresso di Piazza Duca d'Aosta, i tigli di Viale Spellanzon...
Alla fine, ritrovo – incontro dove c'era il grande pioppo dell'Enologia.