Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

domenica 22 novembre 2015

Bruxelles ...e dintorni

Succede di essere in volo da Bruxelles verso Venezia la sera di venerdì 13 novembre e di atterrare verso le 22.30.
Trenta amministratori di ritorno da un viaggio istruttivo, stimolante, concepito per capire meglio come funziona e come far funzionare meglio la grande casa di tutti noi: ognuno portava a casa un'esperienza nuova, la volontà di condividere le informazioni con gli altri amministratori, con i cittadini. Ognuno era felice per aver condiviso momenti di studio, confronto e di divertimento, tutti avevamo rinsaldato o costruito rapporti personali.
Baci e abbracci prima di uscire dall'aeroporto, gli ultimi saluti mentre i telefoni si accendevano: poi le notizie, tremende, sconvolgenti, raggelanti da Parigi.
Lo sbigottimento si è fatto più grande quando, qualche giorno dopo, si è scoperto che proprio nella capitale belga (ed europea) c'è il covo più pericoloso dei terroristi.
Chissà, camminando per le strade, mentre salivamo nella metropolitana all'ora di punta, durante i nostri allegri e innocenti cori nella Grande Place, forse abbiamo sfiorato l'incontro con gli assassini.
La città che si stava preparando per festeggiare San Nicolò, con le vetrine scintillanti di cioccolata e addobbi già natalizi, ora è piombata nell'oscurità della paura.
Lungi dall'aggiungermi alla schiera di esperti di geopolitica dell'ultima ora, ancora più lontana da chi predica odio e violenza scimmiottando maldestramente il linguaggio degli assassini dell'Isis, ripropongo qualcuna delle riflessioni che avevo nella testa prima che tutto ciò accadesse.
Bruxelles è una città cosmopolita, piena di persone provenienti da ogni dove, piena di ex italiani e di camerieri e commessi che volentieri si sforzano di parlare la nostra lingua, è diventata il cuore dell'Europa, è una specie di Washington, ma noi Europei (e soprattutto chi governa questo grande insieme) non ce ne rendiamo conto. Le istituzioni, come era ovvio che fosse, hanno accolto un po' delle tradizioni politiche di ciascuno: ciò che si è perso, purtroppo, è il primato vero della politica, dando troppo spazio ai regolamenti, all'idea di un potere asettico che diventa, per forza, arido, impotente e lontano.
Noi Italiani conosciamo bene lo sport della denigrazione del nostro Paese, ma forse abbiamo qualcosa da insegnare: ritengo inconcepibile che a nessuno dei passeggeri che hanno passato il check in dell'aeroporto internazionale di Bruxelles Zaventem, pieno di gente il venerdì sera, né a quelli che sono saliti sul mio stesso volo sia stato chiesto un documento di riconoscimento: agghiacciante. Per entrare nelle tre sedi dell'Europa che ho visitato, pur essendo in una lista precedentemente fatta pervenire, non solo ci hanno chiesto ogni volta le carte d'identità ma ci hanno fatto passare attraverso il body scanner: la cosa mi era parsa del tutto normale. Meno normale che intorno alle sedi ci fosse solo qualche soldato, e vicino al Parlamento Europeo nemmeno quello. Una bella sensazione di libertà, non c'è che dire, l'idea di essere a casa propria, la volontà di affermare, forse, la fiducia verso il prossimo dei paesi nordici. Ma perché tanta sicurezza all'interno e così poca lì intorno?
E ancora: l'ingresso della Commissione Europea (come dire il Congresso USA, o la Casa Bianca, all'incirca) è proprio all'uscita della metropolitana, non serve nemmeno uscire in strada. Ottima cosa per evitare di bagnarsi, ma...
Non mi dilungo oltre, se non per dire che l'Europa è la nostra casa, un grande condominio complicato che, secondo me, ha tanto bisogno di politica, quella vera, ha tanto bisogno di Italia, con la nostra capacità di inventare soluzioni, di non fermarci davanti a un regolamento.
Fuori da un ingresso del Parlamento Europeo di Bruxelles è conservato un pezzo del muro di Berlino. Deve rimanere un monito: i muri non servono, soprattutto per fermare le idee e i sogni, meglio avere le porte. Sorvegliate.


giovedì 5 novembre 2015

200 giorni di caos per una rotonda?

Un calvario. Dalla scorsa estate chiunque si avventuri nei pressi dell'incrocio fra Via Matteotti e Viale Italia deve mettersi preventivamente l'animo in pace, la coda snervante è assicurata: i lavori per la realizzazione della rotatoria vanno piano, lenti, lentissimi. L'appalto prevede 200 giorni (più di sei mesi) per la consegna, nel frattempo si sono susseguite ordinanze per la deviazione del traffico, la realtà è che soprattutto nelle ore di punta passare di là è un incubo, così come per gli abitanti di Campolongo, che si ritrovano a vivere non in un quartiere residenziale ma lungo un'arteria di scorrimento...
Per questo ho presentato l'interpellanza che segue, sperando che l'assessore non ci metta altri 200 giorni per rispondere...
 
Oggetto: interpellanza sull'andamento dei lavori della rotatoria fra Via Matteotti e Viale Italia


PREMESSO CHE

  • Con Determinazione n. 51 del 23 gennaio 2015 veniva aggiudicata definitivamente la realizzazione di una rotatoria all'intersezione fra Via Matteotti e Viale Italia alla ditta Pasin Costruzioni Stradali di Pasin Karim & C. di Ponzano Veneto
  • Lo stesso appalto prevede la realizzazione dell'opera in 200 giorni naturali e consecutivi decorrenti dalla data di consegna dei lavori, cioè più di sei mesi
  • In data 23 giugno u.s., con Ordinanza n. 162 veniva data autorizzazione alla stessa ditta aggiudicatrice di predisporre la segnaletica per la deviazione del traffico cittadino

CONSIDERATO CHE,
- La rotatoria è situata in un'area ad altissimo flusso di traffico dovuto anche alla vicinanza del Casello dell'A27 di San Vendemiano
- Dall'inizio dei lavori gli ingorghi, soprattutto nelle ore di punta, sono all'ordine del giorno, con grave danno per gli automobilisti e per quanti comunque transitano in prossimità del cantiere
- Per cercare di evitare le code molti usufruiscono di percorsi alternativi come Via Santa Rosa e Via Monticano, aggravando il traffico e la pericolosità di un quartiere a vocazione residenziale come Via Monticano
- Il termine di 200 giorni risulta molto lungo, soprattutto in vista della brutta stagione e dell'avvicinarsi delle Festività Natalizie, che notoriamente vedono un aumento considerevole del traffico
Il sottoscritto consigliere CHIEDE:
Se questa Amministrazione abbia compiuto verifiche sull’adeguatezza del cantiere e del personale impiegato nello svolgimento delle opere.
Se e come questa amministrazione abbia pensato di far accelerare i lavori o di porre in atto misure atte ad evitare il ripetersi continuo di ingorghi in una zona così delicata per quanti entrano ed escono dalla città

mercoledì 4 novembre 2015

4 novembre. Per non dimenticare

4 Novembre. In questo centenario appena iniziato, vorrei che questa data servisse per comprendere cosa fu davvero quell'immane carneficina, cosa lasciò in chi sopravvisse e in chi subì comunque lutti, distruzione, fame.
Dedico a tutti alcune righe del mio romanzo "Tre volte trenta": il Montello, Colfosco, il Piave, la rincorsa dei ragazzi del '99, giovani che divennero uomini a tappe forzate.

Nell’autunno ormai inoltrato la nebbia ricopriva nuovamente gli spettri della campagna da cui affioravano, rari e guardinghi, i ruderi dei campanili. Da quasi un anno mancavano, in quel lembo del pianeta, voci e attività umane che non fossero la quotidianità dei cannoni e dei proiettili. Da più parti si ipotizzava quale sarebbe stata la data fatidica che tutti aspettavano. Il fiume, ogni giorno più minaccioso, pareva prendersi gioco delle strategie e della credibilità dei comandi, convinto ad affermare ancora una volta la propria autorità su tutti loro. Lui, il Piave, avrebbe deciso.
I pontieri si preparavano al momento in cui il coraggio avrebbe dovuto superare ogni limite prima raggiunto, sarebbero stati i primi a sfidare il destino e la volontà del fiume, la natura.
La tensione aumentava, tenendo ogni uomo all’erta, pronto ad agire, a muoversi, a lanciarsi oltre. Qua e là, lungo il confine, si vedevano le prove dell’artiglieria, la dimostrazione dei muscoli che avrebbero, domani, sovrastato l’avversario riducendolo ad una massa di sconfitti in fuga. Le brigate che per ultime avevano attraversato il Piave un anno prima, da lepri si sarebbero trasformate in cacciatori, rincorrendo lungo la stessa strada quanti li avevano costretti alla fuga. Soldati e camion si sarebbero incolonnati, ma per un percorso inverso.
In un crudele e ineluttabile gioco delle parti stavolta sarebbe toccato ai vinti del 1917 trasformarsi, almeno per un po’, in vincitori, tutti poco più che ragazzi.
L’esperienza aveva insegnato che ogni attacco, ogni battaglia importante aveva inizio nelle prime ore del giorno, quando l’alba è ancora lontana ed il buio regna sovrano e incontrastato; ognuno temeva e desiderava essere di sentinella durante la notte, sentire l’adrenalina, la tensione, quasi la speranza di essere il primo testimone del cambiamento, dell’uscita da quell’immobile estenuante angoscia.
In quelle condizioni era facile perdere la cognizione del tempo, dimenticare la sequenza del passare delle ore, e con loro quello dei giorni.
La pioggia incessante consegnava una nauseante sensazione di uniformità, di stantia ed immobile omogeneità ai corpi ed alle menti di migliaia di uomini assiepati lungo quel fronte che pareva non volersi interrompere mai, nascosti dietro un numero immenso di mitragliatrici, bombarde, cannoni.
Fermi, inzuppati fin nelle ossa da un’acqua che la faceva da padrona sopra e sotto i loro piedi, tutti in attesa di ciò che doveva accadere.
Apnea, tensione, incertezza e pensieri sospesi fra la speranza e la paura.
La notte fra il 23 e il 24 ottobre, Vincenzo e Francesco montavano di guardia. Insieme, ancora una volta, contenti di essere arrivati fin là, di poter sognare insieme il ritorno a casa, di immaginare la costruzione dei loro sogni.
Un anno prima il tempo era come in quei giorni, e in quella valle incassata in mezzo ai monti l’acqua era ancora più scrosciante, più terribile l’angoscia, più forte la sensazione di essere in trappola.
Ora l’orizzonte era molto più vasto, e quelli che avevano raccontato tante volte quella battaglia, e la ritirata, ed i compagni morti nel sonno, e la marcia infinita di uomini stanchi, sfiduciati, braccati dai nemici e minacciati da una giustizia militare ottusa e colpevole, tornarono a narrare, cercando così di scacciare quei fantasmi che temevano di trovare ancora sulla loro strada.
Dopo un anno quella guerra era ancora lì, tutti loro, quelli che erano rimasti, erano ancora lì, inchiodati sulle trincee a guardia di quel fiume, che aveva ormai inghiottito troppi poveri corpi, che non aveva ancora permesso a nessuno di passare oltre.
Dopo un anno tutti dicevano che stava per scoccare l’ora della fine, che gli eserciti avrebbero entro poco abbandonato il fronte.
Nel buio della notte, che verso la fine di ottobre è ormai lunga, si udirono strani rumori mescolati allo scrosciare della pioggia, stelle surreali si accesero in direzione del Monte Grappa. I fuochi della prima battaglia, in perfetta sintonia con l’anniversario, avevano dato la stura all’inizio della fine. Non sul fiume, ma sulla grande montagna che lo guarda da lontano si cominciava a sparare. Sperando che quelli accesi per primi fossero i fuochi delle artiglierie italiane. Molti sarebbero morti anche stavolta, forse sarebbero stati gli ultimi.
Nemmeno il tempo di dare l’allarme e i boati giunsero anche dal fiume, ma più a valle, in mezzo all’acqua. I pontieri, come in un miracolo, permisero di dare fuoco al fiume.
Loro, i fanti del Montello, rimanevano al loro posto, fermi in attesa.
Vincenzo e Francesco si strinsero la mano e raggiunsero la loro postazione, immaginando che da quel momento in poi il riposo sarebbe stato una chimera.
[...]
 
27 ottobre, ma il loro momento non era ancora giunto. La linea azzurra di confine era in quei giorni un fiume in piena, limaccioso, pericoloso, che di corsa scendeva dai monti cercando di raggiungere presto il mare dove gettarsi impetuosamente, dove cercare riposo, finalmente, dove andare a rigenerarsi, dove scaricare e abbandonare il carico di lutti e di orrore che portava con sé.
Poco più a monte si stava consumando un’altra carneficina, così vicina che il fragore delle detonazioni e il frastuono provocato dall’impeto dell’acqua parevano amplificare le voci dei soldati che urlavano, cadevano, imprecavano, si scavalcavano l’un l’altro correndo per raggiungere l’altra riva, per varcare il confine.
Il Piave, inesorabile, correva all’impazzata, sulla cresta delle onde luccicavano elmetti strappati a qualcuno che non avrebbe visto la fine di quella giornata, che non avrebbe partecipato alla sconfitta e nemmeno alla gloria di quanti, poi, avrebbero saputo di essere stati i primi a far tornare italiana la sponda sinistra del fiume.
L’attesa, per chi da un momento all’altro avrebbe seguito le orme degli altri, buttandosi a capofitto verso il fiume, per attraversarlo dopo un anno, significava poche frasi pronunciate, molta fatica a respirare, i morsi dell’acido lattico lungo i muscoli, il pensiero che correva, inevitabile, verso la paura di non farcela proprio alla fine, di subire la beffa di rimanere lì per sempre nel giorno in cui tutto sarebbe cambiato.
[...]
 
Fu l’ultima giornata di trincea, le ultime ore trascorse in quella che per mesi era stata l’unica realtà, l’unica misura del vivere e del morire, l’unico ricovero, l’unico, pericoloso e nauseabondo rifugio.
Al di là del fiume c’era un altro mondo, una terra sospesa, un nemico che, forse, si sarebbe arreso e avrebbe tentato la fuga attraverso le macchie di foresta che si intuivano da lontano.
I fanti passarono la notte in un finto riposo, seduti per terra, l’elmetto in testa e il capo appoggiato al fucile, piantato per terra in mezzo alle gambe. Sottovoce qualcuno pregava, qualcun altro imprecava, altri ancora stavano in silenzio, assorti nel comune pensiero, più che altro una speranza, che quei giorni sarebbero stati gli ultimi trascorsi da soldati.
In quell’umanità sfinita la parola vittoria non assumeva ancora un significato preciso, avrebbero vinto quando il loro destino sarebbe stato chiaro. L’essere soldati, in qualche modo, aveva significato un’identità, una comunanza di obiettivi; l’obbedienza aveva costretto tutti a ricacciare indietro vecchie aspirazioni, lati pungenti del carattere, capacità e volontà di scelta.
Per mesi, alcuni per anni, avevano imparato a non pensare, soprattutto a non esprimere i pensieri. Tornare a casa avrebbe significato anche questo, dover nuovamente decidere.
E tornare, nell’incertezza di ciò che avrebbero ritrovato, nell’insicurezza di trovare qualcuno ad attenderli, nel dubbio di riuscire a dimenticare in fretta per rituffarsi nella vita quotidiana, non era una prospettiva facile.
C’era chi aveva la sua casa in quella terra ancora invasa, e non vi avrebbe trovato forse niente e nessuno, nemmeno i muri, e sarebbe stato costretto a riprendere il viaggio, o ad aspettare senza sapere chi e quando sarebbe arrivato.
La guerra era stata dura, difficile e tremenda, ma la sua fine non appariva molto più semplice: aveva segnato per sempre la vita di ognuno, lasciava tracce e ferite indelebili nei corpi e negli animi, consegnava un futuro di incertezza.
[...]
Dopo giorni la pioggia era cessata, lasciando posto ad un’aria nuova, che scendeva a valle lungo il letto del fiume.
In tempi normali avrebbe trasportato l’odore dell’erba macerata nell’acqua del Piave, il profumo del bosco d’autunno, l’aroma fragrante delle castagne arrostite, l’odore invitante della legna arsa nei focolari.
Per quel popolo in armi fu il segnale: cominciava la grande corsa, la rincorsa del nemico.
L’acqua, tumultuosa e assordante nel suo scorrere impetuoso, rischiava di travolgere da un momento all’altro i ponti gettati e con essi quanti vi si trovavano sopra, era fredda, ma non c’era tempo per rendersene conto, era pericolosa, ma nessuno sembrava essersene accorto.
La riva sinistra era finalmente lì, a portata di mano, sul greto affioravano cadaveri con divise diverse, affiancati e accomunati da un medesimo destino.
Bisognava, come sempre, passare oltre, non era quello il tempo della pietà. 
[...]
Corsero per ore, sparando e rincorrendo, rincorrendo e sparando. Quel pezzo d’Italia era troppo simile a quello che avevano appena lasciato. Ovunque trincee, fangose e marce come le loro, armi abbandonate all’improvviso, uomini a terra morti o agonizzanti, reticolati, resti di postazioni d’artiglieria ormai inutili, dappertutto testimonianza di alberi sradicati, campi devastati, ruderi di abitazioni, segni di incendi appiccati che nessuno aveva tentato di spegnere.
Non c’era tempo per rendersi conto della dolcezza di quei saliscendi ora aspri ora lievi, scomparso quasi ogni segno della collina coltivata, del lavoro instancabile che per secoli i contadini avevano compiuto coltivando declivi dove era difficile imbrigliare l’acqua, dove viti e granoturco soffrivano la sete.
Non c’era più tempo per nulla: tutto un esercito rimasto fermo per troppi mesi ora percorreva chilometri in poche ore, attraversava fossi e campi, aie sconvolte e borghi ormai irriconoscibili.
La cima di ogni altura era un osservatorio nemico, a volte abbandonato repentinamente e a volte difeso strenuamente da chi era costretto da qualche strano ordine a non accettare il proprio destino.
I nomi prima solo sentiti e letti nelle mappe del tenente ora divenivano realtà: villa Jacur, con quel nome un poco esotico, il Colle della Guarda, San Daniele divennero luoghi veri.
[...]
Nelle case abbandonate, dagli anfratti del terreno, emergevano testimonianze recenti dell’occupazione: brande, resti di cucine da campo, armi spesso rese inservibili, qualche soldato impaurito che chiedeva pietà, conscio della propria debolezza, sfinito da un’immane stanchezza.Gli sparuti drappelli della popolazione rimasta osservavano quel continuo passaggio di uomini in armi con rinnovata fiducia, ma con il disincanto di chi ne ha già viste tante, e non osa ancora essere felice, ha paura di sperare, teme la disillusione.
Il mondo si era nuovamente rovesciato, la guerra stava quindi per finire davvero, quei giovani stanchi, divenuti in poco tempo uomini e veterani, quei soldati tremendamente provati da anni di guerra avrebbero dovuto convincersi di essere i vincitori.
Parola importante, vittoria, che per tutti loro aveva un solo significato: tornare a casa, per sempre.




domenica 1 novembre 2015

Bresilia e Libia, la storia in cimitero

Ecco un cimitero di paese, dove le tombe dei ricchi sono poche e riconosciute da tutti, ma le altre, vecchie o nuove che siano, parlano di una devozione popolare sentita, intensa, che in questi giorni trasforma il camposanto in un tripudio di colori vivissimi.
Un tempo i morti si mettevano sotto terra, chi poteva costruiva la tomba che avrebbe accolto un po' alla volta i nonni, i figli, le mogli... Abili mani di scalpellini e marmisti davano forma a quello che, almeno per l'ultimo viaggio, rappresentava la cifra, lo stile, la caratteristica di una famiglia.
Poi sono venuti i colombai, quando la terra si dimostrò ormai insufficiente ad ospitare tutti, ma anche qui ciascuno ha scelto un marmo, delle lettere, vasi e lumi, parole di ricordo ed eterne promesse.
Ci si trova fra vivi, in cimitero, e sulle lapidi si incontrano visi ormai dimenticati, facce che ci rammentano all'improvviso episodi, amicizie, storie di paese.
Vecchie foto in bianco e nero mostrano bimbi, giovani e anziani, donne che paiono vecchissime ...e poi vedi che quelle facce sfatte avevano poco più di cinquant'anni, vissuti e tribolati come fossero almeno il doppio.
Il cimitero di paese parla del mondo contadino, quando la fotografia serviva ad immortalare momenti speciali, quando per farla si prendeva l'unico vestito buono, gli uomini mettevano il cappello e si lisciavano i baffi e le donne esibivano qualche ornamento, un fazzolettino, una camicia bianca....
Dietro a tutto questo, occhi e rughe che parlano di lavoro diuturno, innumerevoli parti, guerre che non finivano mai e tante partenze, che significavano insieme disperazione e speranza.
Partirono in tanti, a fine Ottocento, sognando quella che per tutti era la "Merica", partirono spopolando interi paesi, borghi sparsi in collina e in una pianura che appariva spesso troppo desolata per continuare a viverci.
In un'Italia ancora troppo analfabeta, né la gente né gli ufficiali d'anagrafe avevano dimestichezza con la lingua, tanto meno con parole e luoghi strani e foresti: nel 1890 nacque una bimba, forse il suo papà era da poco partito per la Merica su una nave diretta in Brasile, forse era riuscito a mandare una lettera, un racconto di speranza. Me la immagino, l'ostetrica chiamata di corsa in piena notte, mi immagino lo sforzo di andare a registrare la nascita a quell'impiegato che, nell'incertezza ortografica imperante pensò bene di aggiungere uno svolazzo di fantasia: la piccolina si chiamò Bresilia, quasi come la capitale di quell'immenso paese, che però fu fondata molti decenni dopo. Chissà le la piccola vide mai il suo papà, chissà se seppe mai di aver anticipato la storia di una città costruita a tavolino: lei era nata per caso.
Venne il riscatto, o almeno così parve a quanti, col nuovo secolo, immaginarono un'Italia forte e combattiva, anch'essa con le colonie dove andare a lavorare da padroni e non da servi, con una nuova terra che prometteva faville. Così non fu, lo sappiamo, ma nel ribollente 1914, qualche giorno dopo Sarajevo, nello stesso paese di Bresilia nacque Libia, nome altisonante e simbolo di vittoria.
Di lì a un anno il papà di Libia fu sicuramente chiamato a combattere sull'Isonzo o sul Grappa, sul Pasubio o la Marmolada. Chissà se riuscì a giungere fino al Piave e tornare a casa: magari, se gli nacque un altro figlio lo chiamò Vittorio.
Ora sono tutti raccolti in quella lunga serie di immagini, ricordi un po' sbiaditi.
Bresilia e Libia sono, almeno in questi giorni, circondate di profumo e colori.