Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

domenica 23 ottobre 2011

Tea gli dice addio

Bruno, silenzioso, rientrò con lei, cenarono senza parlare, scrutando uno negli occhi dell’altra i pensieri, i timori, le certezze amare.
Nel freddo di quella notte parigina stettero abbracciati nel letto, l’amore venne anch’esso in punta di piedi, senza clamore, velato di disperata malinconia.
Nei giorni seguenti Bruno preparò la partenza per la Spagna: Tea si muoveva come un automa, senza più chiedere nulla, senza porsi domande alle quali non avrebbe saputo dare risposte, se non ferite sempre più profonde.
Spartaco rifiutava di rivederla.
Tea era sola, ancora una volta sola.
Il freddo era pungente, l’aria umida era simile a tanti aghi che si conficcavano nel viso triste di Tea che camminava accanto a Bruno, sfiorandogli la mano intirizzita.
Camminarono per un tempo reso lunghissimo dalle pause rubate per un abbraccio, un bacio lungo la strada: ricordavano le loro passeggiate allegre, pensarono al loro primo incontro svizzero, alla redingote consunta diventata giacca, alla leggerezza del loro amore. Tutto, forse, stava per finire, immolato sull’altare della guerra senza frontiere, della lotta disperata contro il fascismo, contro Francisco Franco, contro l’agghiacciante minaccia nazista.
Bruno partiva col cuore gonfio di tristezza per il loro amore ma convinto di andare a difendere un sogno.
Tea rimaneva a Parigi, senza il suo uomo e senza l’amore di suo figlio. Abbandonata un’altra volta.
Quando il convoglio di Bruno stava per partire ebbe la forza di dirgli: – Ci vedremo in Spagna, ne sono sicura.
Gli sorrise, con l’animo gonfio di mestizia.

giovedì 20 ottobre 2011

Il poeta solo

Le strane sembianze di un dormiente col volto di ceramica. Dagli occhi infossati e spenti del Maestro non traspariva nessuna luce e due lacrime uscite dai miei lo hanno salutato. Le labbra sottili e serrate dalla morte non si apriranno mai più, non ci inonderanno con la sua voce saggia e ironica; le mani magre e ossute del grande saggio non obbediranno più all'istinto di scrivere, vergare i fogli, far parlare le parole della fantasia, delle piccole e grandi verità.
Di quell'uomo sotto un abito funebre troppo grande per il suo corpo vecchio ho visto soprattutto la testa, ho immaginato il corto circuito che ha fatto tacere per sempre ciò che ancora aveva da dirci, le osservazioni argute e le taglienti arrabbiature con le quali ci avrebbe sferzato, spronato, sgridato. Carezze, per chi sia abbastanza umile da fermarsi a pensare.
Ecco, se è vero che nella testa nasce il pensiero, la capacità di trasformare emozioni e sentimenti in idee, quella era la parte giovane del vecchio che se n'è andato.
Era solo però, in questa mattina di pioggia battente, a fargli compagnia la guardia silenziosa dei Carabinieri, qualche sparuto visitatore infreddolito, il pensiero e il ricordo, forse, di molti.
Poco ascoltato in vita, come spesso capita ai poeti, chissà se ce ne ricorderemo, qualche volta, dopo che sarà passato il momento della lettura improvvisa e vorace dei suoi versi.
Poco importa in realtà, la verità è spesso troppo semplice per essere compresa, i poeti usano poche parole, minoranza in un mondo logorroico intento ad ascoltarsi senza comprendere ciò che sta dicendo.
Aveva detto da poco che 90 anni sono troppo pochi per capire qualcosa della vita: e i suoi occhi, in quel momento, hanno espresso tutta la saggezza possibile, tutta la profonda comprensione per un'umanità che si sente smarrita, incapace, impaurita.
Grazie, Maestro.

L'ATTIMO FUGGENTE

Ancora qui. Lo riconosco. In orbite
di coazione. Gli altri nell'incorposa
increante libertà. Dal monte
che con troppo alte selve m'affronta
tento vedere e vedermi,
mentre allegria irrita di lumi
san Silvestro, sparge laggiù la notte
di ghiotti muschi, di ghiotte correntie.
E. E, puro vento, sola neve, ch'io toccherò tra poco.
Ditemi che ci siete, tendetevi a sorreggermi.
In voi fui, sono, mi avete atteso,
non mai dubbio v'ha offesi.
Sarai, anima e neve,
tu: colei che non sa
oltre l'immacolato tacere.
Ravvia la mia dispersa fronte. Sollevami. E.
È questo il sospiro che discrimina
che culmina, "l'attimo fuggente".
È questo il crisma nel cui odore io dico:
sì, mi hai raccolto
su da me stesso e con te entro
nella fonte dell'anno.
Andrea Zanzotto

sabato 15 ottobre 2011

Compleanno di un'amica

Sorridi,
e brillerà di più
il mattino luminoso
di quest'autunno.
Parla, racconta,
e sarà musica che accompagna
i suoni della natura che ci rimane.
Piangi se vuoi,
e le lacrime si mischieranno
alla prima brina.
Sarai comunque tu
parte orgogliosa ed unica
del mondo che ti appartiene,
scrigno prezioso per chi ti vuol bene,
guizzo e desiderio,
stupore, entusiasmo di un'amica.

Isabella, 15 ottobre 2011

lunedì 10 ottobre 2011

Viale Spellanzon. Inizio d'autunno.

Un refolo. Poco di più. Inizia un lento mulinello ed insieme alle prime grosse gocce le foglie invadono il viale.
Alcune accelerano grazie alla pioggia che ticchetta sul loro dorso, altre continuano la placida discesa, contribuendo a variegare la luce che traspare, inonda, fluttua, muta la nostra visuale.
Beffandosi, come spesso accade, degli affanni umani, il fogliame in caduta libera e senza una mira precisa vanifica il lavoro degli operai del Comune intenti a pulire il marciapiedi: il tubo soffiante indirizza l'aria da una parte per spostarle e loro ricadono lì dove è apparso nuovamente il fondo stradale.
Spiritose e beffarde continuano a scendere, quasi non si trattasse della loro stessa fine. Immagino che vogliano andarsene ridendo: tutto sommato il calpestio produce un rumore allegro e scanzonato, così sarà fino a quando la pioggia non avrà reso fradicio il letto multicolore.
Questo un tempo era il Viale dei Passeggi, adornato di statue bianche con visi a volte austeri a volte bonari. Ascoltavano impassibili le chiacchiere, quelle innocenti e quelle nascoste, quelle degli amanti e quelle delle spie; mantenevano i segreti bisbigliando qualcosa, magari, durante la notte, quando donne e uomini dell'Ottocento se ne stavano rinchiusi, tutti a parte gli sbandati o i matti, quelli che non avrebbero mai rivelato le parole dei busti di marmo, tanto nessuno avrebbe dato loro retta.
Forse proprio i matti sapevano ascoltare il sussurro del marmo nudo nell'inverno, il fruscio delle foglie deboli durante l'estate, qualche viandante sapeva apprezzare il debole ma confortante tepore di un letto di foglie dai colori cangianti, sorridendo, magari, alla vista di una serissima statua incapace di scrollarsi di dosso quella foglia malandrina, sorniona, venuta a posarsi proprio lì, sul testone bianco.
Magari ci fosse, un refolo di vento, certe notti.

sabato 8 ottobre 2011

Lacrime asciutte


Il treno adesso correva verso Bologna e Venezia. Tea, incurante degli altri passeggeri, si abbandonò ad un pianto silenzioso e liberatorio: dopo quel giorno lontano aveva versato poche lacrime affrontando a muso duro tutto ciò che la vita le aveva riservato. Tanto, troppo forse.
Il convoglio risaliva affannosamente l’Appennino, quasi accompagnando i pensieri ed i ricordi di Tea.
In quella sera lontana Bruno, silenzioso, era rientrato con lei, cenarono in silenzio, scrutando uno negli occhi dell’altra i pensieri, i timori, le certezze amare.
Nel freddo di quella notte parigina stettero abbracciati nel letto, l’amore venne anch’esso in punta di piedi, senza clamore, velato di disperata malinconia.
Nei giorni seguenti Bruno preparò la partenza per la Spagna: Tea si muoveva come un automa, senza più chiedere nulla, senza porsi domande alle quali non avrebbe saputo dare risposte, se non ferite sempre più profonde.
Spartaco rifiutava di rivederla.
Tea era sola, ancora una volta sola.

venerdì 7 ottobre 2011

Tre volte trenta a Padova



TRE VOLTE TRENTA
Romanzo di Isabella Gianelloni


SABATO 29 OTTOBRE 2011 ORE 18,00
presso
La Risorta Osteria del ReFosco
Via Carlo Cassan, 5 Padova

Laura Ruzickova incontra Isabella Gianelloni
http://colleinblog.blogspot.com/





giovedì 6 ottobre 2011

Il torrente

IL TORRENTE
Italo Calvino
da “Marcovaldo”
Ho lasciato lassù, sotto i ghiacciai delle Venoste,
un torrente che non posso dimenticare.
Mai avevo visto l’acqua splendere, correre e cantare così.
Veniva giù dritta,
incassata in un letto muscoso, tutta un candore di spume: faceva la luce.
A balzi, a spruzzi, a capriole l’acqua
scendeva, stretta nel suo letto,
coprendolo perfettamente senza sbavature né pentimenti.
Tornai più volte al torrente.
E ogni volta scoprivo in esso o intorno ad esso una bellezza nuova.
Una mattina volli seguire in senso inverso il suo corso.
Mi allettava scoprire il suo misterioso viaggio e il segreto delle sue origini.
M’arrampicavo tenendomi quanto più potevo vicino ad esso.
Qualche volta ero costretto a scostarmi
e allora lo vedevo occhieggiare fra i tronchi,
mandare degli spruzzi argentei quasi per
incoraggiarmi nel cammino.
I larici andavano diradandosi, lasciavano il torrente
che pareva un laghetto di montagna.

martedì 4 ottobre 2011

Conegliano e le zuppe economiche

Nel 1815 la Delegazione centrale di beneficenza del Tagliamento, per far fronte alla miseria crescente della popolazione, e indicando il provvedimento come assolutamente necessario vista la gravità della situazione inviò ovunque un opuscolo contenente l’Istruzione intorno alle Zuppe Economiche.
L’invenzione di questo alimento veniva attribuita “all’immortale Rumford”, pare un inglese, di cui non è rimasta alcuna traccia rilevante…
Le zuppe erano state introdotte in quel di Monaco, poi in altre città della Germania e della Francia, nonché in qualche ospitale inglese.
Nell’opuscolo si legge che (le zuppe) “mirano a combinare per modo le usuali sostanze nutritive, che con quello, che verrebbe consumato da una sola persona possano venirne alimentate parecchie”.
Fondamentale ruolo veniva dato all’acqua: “Il potere nutritivo delle sostanze alimentari non sta solamente in ragione delle masse solide, ma in ragion composta di queste, e del volume, che loro si fa prendere; in guisa che fondendosi una di queste masse, sotto l’attività continuata del fuoco, in una data quantità di liquido, il suo potere nutritivo prodigiosamente si accresce”.
Vienna lanciò quindi in grande stile la campagna per le zuppe economiche raccomandando di seguire le istruzioni visto che “nel sommo della sventura la forza imperiosa del bisogno potrebbe spingere degl’infelici a cercare un alimento in sostanze nocive, o meno salubri”.
Si trattava quindi di preparare un brodo con ossa (anche già residue di cottura ordinaria) e, quando possibile, altri scarti di animali, fatto bollire per 12 o 24 ore, con l’aggiunta continua di acqua. Al brodo ottenuto venivano aggiunti cereali (orzo fatto bollire 6 ore, o riso per 12 ore) o legumi, erbe spontanee, farine, aromi e quant’altro.
Prima di dare le dosi esatte, le Istruzioni si preoccupavano di raccomandare ancora l’utilità delle zuppe, affermando che “un movimento generale di generosa pietà può concorrere a mantenere perenni questi fonti di pubblica beneficenza… Possano queste provvidenze allontanare gli effetti ancora più funesti, a’ quali il tormento della fame, e la disperazione possono trascinare involontariamente tanti infelici!”.
Interessante è il fatto che le suddette istruzioni menzionassero l’uso efficace della patata, rammaricandosi del suo scarso, o nullo, utilizzo in queste contrade.
Il risultato, comunque, era una brodaglia sicuramente con scarsi effetti ricostituenti.
Il parroco di Godega, paese situato lungo la Strada Postale del Friuli, nel maggio 1816 scrisse che la popolazione riceveva un po’ di sollievo dalle zuppe, ma lamentò il fatto che permanevano gli alloggi militari.
Le zuppe erano uno dei due strumenti utilizzati da Vienna per venire incontro alla popolazione stremata, l’altro era l’impiego di forza lavoro in quelli che oggi chiameremmo “lavori socialmente utili”.
Con precisione tutta asburgica chiedevano numeri, conto dei magri stanziamenti in denaro per la confezione delle ormai famose zuppe, puntigliosi elenchi dei poveri, da cui dedurre quali fossero quelli effettivamente allo stremo da quelli che, magari, potevano resistere di più.
I parroci, unici referenti in un simile bailamme di miseria e disperazione, compilavano, chiedevano, assicuravano, ma qualcuno scriveva, adirato per dover decidere quali parrocchiani sarebbero dovuti morire prima di fame.
Con buona pace dell’ “immortale Rumford”.

sabato 1 ottobre 2011

Anche i nobili piangono

RAGIONERIA DELLA MISERIA - ANCHE I NOBILI PIANGONO
 Nella prima metà del XIX secolo la mortalità era ancora altissima, soprattutto nell’infanzia e fra le classi meno abbienti, ma non solo.
Se la pellagra era appannaggio dei più poveri, le malattie infettive attraversavano trasversalmente tutte le categorie sociali, nobiltà compresa.
A Conegliano nel 1837 le famiglie nobili erano 26, molte erano rami di uno stesso ceppo. Dieci di queste, però, erano senza figli e destinate perciò all’estinzione.
Come sempre accadeva, anche la nobiltà aveva i suoi “casi pietosi”, risultato quasi sempre della dissolutezza e dell’incapacità di alcuni dei suoi membri.
C’è l’esempio di tale Domenico Romieri, nobile, di anni 42, che nel 1831 si trovava ad avere la pensione patrizia come unica fonte di sostentamento per la famiglia. Il nobiluomo risultava ridotto allo sfinimento per dissolutezza e alcolismo.
Altro caso è quello del casato dei Buffonelli, in particolare di Giuseppe, che nel 1831 aveva 30 anni ed era figlio di Francesco, comunemente noto in città come il “matto Buffonelli”.
Fu chiamata la forza armata per eseguire il pignoramento dei beni di famiglia.
Giuseppe Buffonelli fu ricoverato a Venezia, a San Servilio, da dove fu dimesso perché dichiarato più imbecille che maniaco.
Venne altresì inserito fra i non aventi diritto all’assistenza gratuita in quanto nobile, anche se il Comune ne dichiarava l’assoluta povertà.
La famiglia è veramente miserabile, e tanto più ella è tale perché la sua condizione rende più umilianti quelle privazioni del necessario assoluto, cui è condannata soffrire.
Un altro problema per i parroci, sempre costretti a compilare le liste per avviare la distribuzione di pane ai bisognosi, come previsto dal lascito Testori, e che furono invitati a comprendere nell’elenco dei poveri anche quelli cosiddetti vergognosi.
L’invito raccomandava ogni saggia economia in questo elenco, onde non imbarazzare nella scelta, riproducendo così, ancora una volta, lo schema della divisione fra miserabili e miserabilissimi, fra chi non aveva nulla e chi, non si sa bene come, aveva ancora meno.
Si giunse a proporre la compilazione di un elenco separato di tutti i poveri veri della parrocchia che non potevano vivere che di questua, proponendo di contrassegnarli con una marca visibile.
Chi non era in possesso della marca in questione non poteva questuare né in città né nel circondario esterno, anche se alle guardie di Pubblica Sicurezza fu raccomandato di avere sì la mano forte, ma con quelle maniere e riguardi che esige una classe tanto interessante la umana sensibilità.
Vedi mai che non ci fosse qualche nobile sfortunato, a cui mancava anche la patente di miserabilità.