4 Novembre. In questo centenario appena iniziato, vorrei che questa data servisse per comprendere cosa fu davvero quell'immane carneficina, cosa lasciò in chi sopravvisse e in chi subì comunque lutti, distruzione, fame.
Dedico a tutti alcune righe del mio romanzo "Tre volte trenta": il Montello, Colfosco, il Piave, la rincorsa dei ragazzi del '99, giovani che divennero uomini a tappe forzate.
Nell’autunno
ormai inoltrato la nebbia ricopriva nuovamente gli spettri della
campagna da cui affioravano, rari e guardinghi, i ruderi dei
campanili. Da quasi un anno mancavano, in quel lembo del pianeta,
voci e attività umane che non fossero la quotidianità dei cannoni e
dei proiettili. Da più parti si ipotizzava quale sarebbe stata la
data fatidica che tutti aspettavano. Il fiume, ogni giorno più
minaccioso, pareva prendersi gioco delle strategie e della
credibilità dei comandi, convinto ad affermare ancora una volta la
propria autorità su tutti loro. Lui, il Piave, avrebbe deciso.
I
pontieri si preparavano al momento in cui il coraggio avrebbe dovuto
superare ogni limite prima raggiunto, sarebbero stati i primi a
sfidare il destino e la volontà del fiume, la natura.
La
tensione aumentava, tenendo ogni uomo all’erta, pronto ad agire, a
muoversi, a lanciarsi oltre. Qua e là, lungo il confine, si vedevano
le prove dell’artiglieria, la dimostrazione dei muscoli che
avrebbero, domani, sovrastato l’avversario riducendolo ad una massa
di sconfitti in fuga. Le brigate che per ultime avevano attraversato
il Piave un anno prima, da lepri si sarebbero trasformate in
cacciatori, rincorrendo lungo la stessa strada quanti li avevano
costretti alla fuga. Soldati e camion si sarebbero incolonnati, ma
per un percorso inverso.
In
un crudele e ineluttabile gioco delle parti stavolta sarebbe toccato
ai vinti del 1917 trasformarsi, almeno per un po’, in vincitori,
tutti poco più che ragazzi.
L’esperienza
aveva insegnato che ogni attacco, ogni battaglia importante aveva
inizio nelle prime ore del giorno, quando l’alba è ancora lontana
ed il buio regna sovrano e incontrastato; ognuno temeva e desiderava
essere di sentinella durante la notte, sentire l’adrenalina, la
tensione, quasi la speranza di essere il primo testimone del
cambiamento, dell’uscita da quell’immobile estenuante angoscia.
In
quelle condizioni era facile perdere la cognizione del tempo,
dimenticare la sequenza del passare delle ore, e con loro quello dei
giorni.
La
pioggia incessante consegnava una nauseante sensazione di uniformità,
di stantia ed immobile omogeneità ai corpi ed alle menti di migliaia
di uomini assiepati lungo quel fronte che pareva non volersi
interrompere mai, nascosti dietro un numero immenso di
mitragliatrici, bombarde, cannoni.
Fermi,
inzuppati fin nelle ossa da un’acqua che la faceva da padrona sopra
e sotto i loro piedi, tutti in attesa di ciò che doveva accadere.
Apnea,
tensione, incertezza e pensieri sospesi fra la speranza e la paura.
La
notte fra il 23 e il 24 ottobre, Vincenzo e Francesco montavano di
guardia. Insieme, ancora una volta, contenti di essere arrivati fin
là, di poter sognare insieme il ritorno a casa, di immaginare la
costruzione dei loro sogni.
Un
anno prima il tempo era come in quei giorni, e in quella valle
incassata in mezzo ai monti l’acqua era ancora più scrosciante,
più terribile l’angoscia, più forte la sensazione di essere in
trappola.
Ora
l’orizzonte era molto più vasto, e quelli che avevano raccontato
tante volte quella battaglia, e la ritirata, ed i compagni morti nel
sonno, e la marcia infinita di uomini stanchi, sfiduciati, braccati
dai nemici e minacciati da una giustizia militare ottusa e colpevole,
tornarono a narrare, cercando così di scacciare quei fantasmi che
temevano di trovare ancora sulla loro strada.
Dopo
un anno quella guerra era ancora lì, tutti loro, quelli che erano
rimasti, erano ancora lì, inchiodati sulle trincee a guardia di quel
fiume, che aveva ormai inghiottito troppi poveri corpi, che non aveva
ancora permesso a nessuno di passare oltre.
Dopo
un anno tutti dicevano che stava per scoccare l’ora della fine, che
gli eserciti avrebbero entro poco abbandonato il fronte.
Nel
buio della notte, che verso la fine di ottobre è ormai lunga, si
udirono strani rumori mescolati allo scrosciare della pioggia, stelle
surreali si accesero in direzione del Monte Grappa. I fuochi della
prima battaglia, in perfetta sintonia con l’anniversario, avevano
dato la stura all’inizio della fine. Non sul fiume, ma sulla grande
montagna che lo guarda da lontano si cominciava a sparare. Sperando
che quelli accesi per primi fossero i fuochi delle artiglierie
italiane. Molti sarebbero morti anche stavolta, forse sarebbero stati
gli ultimi.
Nemmeno
il tempo di dare l’allarme e i boati giunsero anche dal fiume, ma
più a valle, in mezzo all’acqua. I pontieri, come in un miracolo,
permisero di dare fuoco al fiume.
Loro,
i fanti del Montello, rimanevano al loro posto, fermi in attesa.
Vincenzo
e Francesco si strinsero la mano e raggiunsero la loro postazione,
immaginando che da quel momento in poi il riposo sarebbe stato una
chimera.
[...]
27
ottobre, ma il loro momento non era ancora giunto. La linea azzurra
di confine era in quei giorni un fiume in piena, limaccioso,
pericoloso, che di corsa scendeva dai monti cercando di raggiungere
presto il mare dove gettarsi impetuosamente, dove cercare riposo,
finalmente, dove andare a rigenerarsi, dove scaricare e abbandonare
il carico di lutti e di orrore che portava con sé.
Poco
più a monte si stava consumando un’altra carneficina, così vicina
che il fragore delle detonazioni e il frastuono provocato dall’impeto
dell’acqua parevano amplificare le voci dei soldati che urlavano,
cadevano, imprecavano, si scavalcavano l’un l’altro correndo per
raggiungere l’altra riva, per varcare il confine.
Il
Piave, inesorabile, correva all’impazzata, sulla cresta delle onde
luccicavano elmetti strappati a qualcuno che non avrebbe visto la
fine di quella giornata, che non avrebbe partecipato alla sconfitta e
nemmeno alla gloria di quanti, poi, avrebbero saputo di essere stati
i primi a far tornare italiana la sponda sinistra del fiume.
L’attesa,
per chi da un momento all’altro avrebbe seguito le orme degli
altri, buttandosi a capofitto verso il fiume, per attraversarlo dopo
un anno, significava poche frasi pronunciate, molta fatica a
respirare, i morsi dell’acido lattico lungo i muscoli, il pensiero
che correva, inevitabile, verso la paura di non farcela proprio alla
fine, di subire la beffa di rimanere lì per sempre nel giorno in cui
tutto sarebbe cambiato.
[...]
Fu
l’ultima giornata di trincea, le ultime ore trascorse in quella che
per mesi era stata l’unica realtà, l’unica misura del vivere e
del morire, l’unico ricovero, l’unico, pericoloso e nauseabondo
rifugio.
Al
di là del fiume c’era un altro mondo, una terra sospesa, un nemico
che, forse, si sarebbe arreso e avrebbe tentato la fuga attraverso le
macchie di foresta che si intuivano da lontano.
I
fanti passarono la notte in un finto riposo, seduti per terra,
l’elmetto in testa e il capo appoggiato al fucile, piantato per
terra in mezzo alle gambe. Sottovoce qualcuno pregava, qualcun altro
imprecava, altri ancora stavano in silenzio, assorti nel comune
pensiero, più che altro una speranza, che quei giorni sarebbero
stati gli ultimi trascorsi da soldati.
In
quell’umanità sfinita la parola vittoria non assumeva ancora un
significato preciso, avrebbero vinto quando il loro destino sarebbe
stato chiaro. L’essere soldati, in qualche modo, aveva significato
un’identità, una comunanza di obiettivi; l’obbedienza aveva
costretto tutti a ricacciare indietro vecchie aspirazioni, lati
pungenti del carattere, capacità e volontà di scelta.
Per
mesi, alcuni per anni, avevano imparato a non pensare, soprattutto a
non esprimere i pensieri. Tornare a casa avrebbe significato anche
questo, dover nuovamente decidere.
E
tornare, nell’incertezza di ciò che avrebbero ritrovato,
nell’insicurezza di trovare qualcuno ad attenderli, nel dubbio di
riuscire a dimenticare in fretta per rituffarsi nella vita
quotidiana, non era una prospettiva facile.
C’era
chi aveva la sua casa in quella terra ancora invasa, e non vi avrebbe
trovato forse niente e nessuno, nemmeno i muri, e sarebbe stato
costretto a riprendere il viaggio, o ad aspettare senza sapere chi e
quando sarebbe arrivato.
La
guerra era stata dura, difficile e tremenda, ma la sua fine non
appariva molto più semplice: aveva segnato per sempre la vita di
ognuno, lasciava tracce e ferite indelebili nei corpi e negli animi,
consegnava un futuro di incertezza.
[...]
Dopo
giorni la pioggia era cessata, lasciando posto ad un’aria nuova,
che scendeva a valle lungo il letto del fiume.
In
tempi normali avrebbe trasportato l’odore dell’erba macerata
nell’acqua del Piave, il profumo del bosco d’autunno, l’aroma
fragrante delle castagne arrostite, l’odore invitante della legna
arsa nei focolari.
Per
quel popolo in armi fu il segnale: cominciava la grande corsa, la
rincorsa del nemico.
L’acqua,
tumultuosa e assordante nel suo scorrere impetuoso, rischiava di
travolgere da un momento all’altro i ponti gettati e con essi
quanti vi si trovavano sopra, era fredda, ma non c’era tempo per
rendersene conto, era pericolosa, ma nessuno sembrava essersene
accorto.
La
riva sinistra era finalmente lì, a portata di mano, sul greto
affioravano cadaveri con divise diverse, affiancati e accomunati da
un medesimo destino.
Bisognava,
come sempre, passare oltre, non era quello il tempo della pietà.
[...]
Corsero
per ore, sparando e rincorrendo, rincorrendo e sparando. Quel pezzo
d’Italia era troppo simile a quello che avevano appena lasciato.
Ovunque trincee, fangose e marce come le loro, armi abbandonate
all’improvviso, uomini a terra morti o agonizzanti, reticolati,
resti di postazioni d’artiglieria ormai inutili, dappertutto
testimonianza di alberi sradicati, campi devastati, ruderi di
abitazioni, segni di incendi appiccati che nessuno aveva tentato di
spegnere.
Non
c’era tempo per rendersi conto della dolcezza di quei saliscendi
ora aspri ora lievi, scomparso quasi ogni segno della collina
coltivata, del lavoro instancabile che per secoli i contadini avevano
compiuto coltivando declivi dove era difficile imbrigliare l’acqua,
dove viti e granoturco soffrivano la sete.
Non
c’era più tempo per nulla: tutto un esercito rimasto fermo per
troppi mesi ora percorreva chilometri in poche ore, attraversava
fossi e campi, aie sconvolte e borghi ormai irriconoscibili.
La
cima di ogni altura era un osservatorio nemico, a volte abbandonato
repentinamente e a volte difeso strenuamente da chi era costretto da
qualche strano ordine a non accettare il proprio destino.
I
nomi prima solo sentiti e letti nelle mappe del tenente ora
divenivano realtà: villa Jacur, con quel nome un poco esotico, il
Colle della Guarda, San Daniele divennero luoghi veri.
[...]
Nelle
case abbandonate, dagli anfratti del terreno, emergevano
testimonianze recenti dell’occupazione: brande, resti di cucine da
campo, armi spesso rese inservibili, qualche soldato impaurito che
chiedeva pietà, conscio della propria debolezza, sfinito da
un’immane stanchezza.Gli sparuti drappelli della popolazione
rimasta osservavano quel continuo passaggio di uomini in armi con
rinnovata fiducia, ma con il disincanto di chi ne ha già viste
tante, e non osa ancora essere felice, ha paura di sperare, teme la
disillusione.
Il
mondo si era nuovamente rovesciato, la guerra stava quindi per finire
davvero, quei giovani stanchi, divenuti in poco tempo uomini e
veterani, quei soldati tremendamente provati da anni di guerra
avrebbero dovuto convincersi di essere i vincitori.
Parola
importante, vittoria, che per tutti loro aveva un solo significato:
tornare a casa, per sempre.
Nessun commento:
Posta un commento