Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

domenica 1 novembre 2015

Bresilia e Libia, la storia in cimitero

Ecco un cimitero di paese, dove le tombe dei ricchi sono poche e riconosciute da tutti, ma le altre, vecchie o nuove che siano, parlano di una devozione popolare sentita, intensa, che in questi giorni trasforma il camposanto in un tripudio di colori vivissimi.
Un tempo i morti si mettevano sotto terra, chi poteva costruiva la tomba che avrebbe accolto un po' alla volta i nonni, i figli, le mogli... Abili mani di scalpellini e marmisti davano forma a quello che, almeno per l'ultimo viaggio, rappresentava la cifra, lo stile, la caratteristica di una famiglia.
Poi sono venuti i colombai, quando la terra si dimostrò ormai insufficiente ad ospitare tutti, ma anche qui ciascuno ha scelto un marmo, delle lettere, vasi e lumi, parole di ricordo ed eterne promesse.
Ci si trova fra vivi, in cimitero, e sulle lapidi si incontrano visi ormai dimenticati, facce che ci rammentano all'improvviso episodi, amicizie, storie di paese.
Vecchie foto in bianco e nero mostrano bimbi, giovani e anziani, donne che paiono vecchissime ...e poi vedi che quelle facce sfatte avevano poco più di cinquant'anni, vissuti e tribolati come fossero almeno il doppio.
Il cimitero di paese parla del mondo contadino, quando la fotografia serviva ad immortalare momenti speciali, quando per farla si prendeva l'unico vestito buono, gli uomini mettevano il cappello e si lisciavano i baffi e le donne esibivano qualche ornamento, un fazzolettino, una camicia bianca....
Dietro a tutto questo, occhi e rughe che parlano di lavoro diuturno, innumerevoli parti, guerre che non finivano mai e tante partenze, che significavano insieme disperazione e speranza.
Partirono in tanti, a fine Ottocento, sognando quella che per tutti era la "Merica", partirono spopolando interi paesi, borghi sparsi in collina e in una pianura che appariva spesso troppo desolata per continuare a viverci.
In un'Italia ancora troppo analfabeta, né la gente né gli ufficiali d'anagrafe avevano dimestichezza con la lingua, tanto meno con parole e luoghi strani e foresti: nel 1890 nacque una bimba, forse il suo papà era da poco partito per la Merica su una nave diretta in Brasile, forse era riuscito a mandare una lettera, un racconto di speranza. Me la immagino, l'ostetrica chiamata di corsa in piena notte, mi immagino lo sforzo di andare a registrare la nascita a quell'impiegato che, nell'incertezza ortografica imperante pensò bene di aggiungere uno svolazzo di fantasia: la piccolina si chiamò Bresilia, quasi come la capitale di quell'immenso paese, che però fu fondata molti decenni dopo. Chissà le la piccola vide mai il suo papà, chissà se seppe mai di aver anticipato la storia di una città costruita a tavolino: lei era nata per caso.
Venne il riscatto, o almeno così parve a quanti, col nuovo secolo, immaginarono un'Italia forte e combattiva, anch'essa con le colonie dove andare a lavorare da padroni e non da servi, con una nuova terra che prometteva faville. Così non fu, lo sappiamo, ma nel ribollente 1914, qualche giorno dopo Sarajevo, nello stesso paese di Bresilia nacque Libia, nome altisonante e simbolo di vittoria.
Di lì a un anno il papà di Libia fu sicuramente chiamato a combattere sull'Isonzo o sul Grappa, sul Pasubio o la Marmolada. Chissà se riuscì a giungere fino al Piave e tornare a casa: magari, se gli nacque un altro figlio lo chiamò Vittorio.
Ora sono tutti raccolti in quella lunga serie di immagini, ricordi un po' sbiaditi.
Bresilia e Libia sono, almeno in questi giorni, circondate di profumo e colori.


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