Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

domenica 14 aprile 2019

Internati Militari Italiani: vittime due volte

Complimenti di cuore a chi ha voluto fortemente la mostra, piccola ma intensa, inaugurata ieri nel Museo degli Alpini di Conegliano dedicata ai coneglianesi Internati Militari Italiani nei lager tedeschi. Complimenti agli Alpini di Conegliano, sempre disponibili, generosi, attenti.
Le cifre ci dicono che circa un migliaio, fra coneglianesi e cittadini di paesi limitrofi, furono i militari fatti prigionieri dai nazisti dopo l'8 settembre del 1943 e mandati nei campi di concentramento, vittime due volte, del nazismo e della smemoratezza del loro Paese.
Tanti, troppi, come troppe sono sempre le vittime di ogni conflitto, di ogni barbarie, di ogni follia omicida.
Lancio un appello al Sindaco di Conegliano. Dietro al monumento alla Resistenza conserviamo una zolla della terra di Auschwitz, troviamo un luogo dove conservare la memoria di quanti si opposero alla follia di quella guerra, di quanti si opposero in ogni modo alla crudeltà del nazifascismo, prendiamo spunto dal ricordo di questi nostri concittadini, che spesso furono tra l'altro esempio di impresa e capacità di ricostruire il nostro territorio, per dare forma e sostanza al ricordo.
Fra qualche giorno sarà il 25 aprile: sarebbe bello che lei annunciasse questa volontà dal palco della celebrazione.
Internati Militari Italiani: tre parole che unite insieme compongono una storia poco conosciuta perché spesso scomoda, una storia composta di sofferenze e profondissime ingiustizie, che ha le proprie radici nelle scelte scellerate dell'Italia fascista.
Prima di quel fatidico 8 settembre del '43 le sorti della guerra erano già chiare e segnate, soprattutto per un'Italia trasformata in burattino: altro che "spezzare le reni alla Grecia"... I nostri soldati erano stati mandati allo sbaraglio nei Balcani, per non parlare di quanto accaduto nei territori africani di un tragicomico impero; la tragedia dell'ARMIR con le nostre truppe mandate a morire nel gelo russo aveva dato l'ultimo segnale, segnando la politica militare nostrana con la parola più infamante per chi vuole fare dell'esercito e della forza militare il proprio vanto: disfatta.
Disfatta di un regime, dei comandi e anche di una monarchia incapace di reggere e gestire con dignità questo Paese, al punto che, come tutti sanno (ma spesso non vogliono ricordare) proprio i nostri soldati furono lasciati totalmente senza ordini mentre l'auto del re fuggiva verso sud.
L'atto formale con il quale si diventa soldati è il giuramento, di fedeltà a una bandiera e allo Stato che ne è rappresentato: lo sapevano bene quei soldati, divenuti nemici, da alleati che erano prima, in nemmeno 24 ore. Avevano giurato di essere disposti a morire per l'Italia, non per un fantoccio (criminale) nelle mani di un dittatore disgraziato, folle e spietato.
Tanti non si arresero, come i martiri di Cefalonia e tanti altri, moltissimi non ebbero nemmeno modo di resistere: furono caricati su treni e navi e trasportati in Germania o nei territori dell'Europa centrale occupati dai tedeschi.
Con essi, vale la pena di ricordarlo, anche tante infermiere, crocerossine, inviolabili per definizione ma che subirono la stessa sorte dei nostri militari e che, come questi ultimi, non ebbero dubbi e scelsero la prigionia piuttosto della collaborazione con Hitler.
Ai militari prigionieri sarebbe spettato un trattamento diverso, ma noi sappiamo quale fosse il rispetto che il nazismo aveva per le leggi e le convenzioni: nessuna pietà per nessuno.
Quei prigionieri sapevano però di dover onorare un giuramento solenne: impossibile andare a combattere sotto un'altra bandiera e per chi stava in quel momento invadendo il loro Paese.
Un atto che a noi può sembrare logico, ma frutto di una scelta tremenda, difficile, che a tanti di quei seicentomila costò la vita: morirono di fame, di stenti, di fatica.
Vissero in condizioni spesso disumane e quando tornarono a casa, alla fine della guerra, trovarono paesi in rovina, case distrutte, famiglie sfollate, lutti ovunque.
Conegliano e il Coneglianese hanno subito tutto questo, hanno visto tanti ebrei deportati e morti nei campi di sterminio, hanno avuto martiri partigiani massacrati dai nazifascisti.
Se il castello fu trasformato in luogo di tortura tanti giovani combatterono, tante donne sfidarono i carnefici portando acqua ai deportati che passavano dalla stazione ferroviaria, tanti si fecero in quattro per salvare ebrei e partigiani dalla morte.
Tutti questi, eroi con un nome e sconosciuti, meritano un posto nella memoria collettiva.


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