- Allora, Gianelloni, cosa sa dirmi del Polisensky? - Ricordo ancora lo sguardo benevolo, sereno e insieme severo di Marino Berengo in apertura della seconda fase dell'esame di Storia moderna.
In realtà iniziò un fuoco di fila di domande sulla svolta della guerra dei Trent'anni, le cause, le conseguenze, l'intreccio tutto seicentesco fra religione e politica.
Quello, il Polisensky, era solo uno dei quattro o cinque testi previsti per la parte monografica di quell'esame. Non finiva più: già estenuata dopo la parte generale sostenuta con l'allora assistente (un grande Derosas), Berengo mi "tenne sotto" almeno altri 50 minuti.
Era solo il secondo dei ventiquattro esami previsti, a casa avevo una bimba piccola e uno praticamente in fasce, eppure... Eppure alla fine ero entusiasta, avevo avuto l'onore di confrontarmi con una delle menti più acute e fervide della cultura italiana; la sua insistenza nello scandagliare le motivazioni profonde degli avvenimenti della storia, nel verificare, confrontare e approfondire mi stava convincendo che quella era proprio la mia strada.
Non ebbi esitazione e dopo un bel po' di altri esami, quando la strada mi parve ormai in discesa affrontai un secondo esame di Storia Moderna (allora si chiamava iterato) e chiesi a Marino Berengo se avrei potuto sperare di laurearmi con lui.
Ho già scritto qualche tempo fa del mio orgoglio quando vedo la foto di laurea con lui vicino a me e il suo nome stampato sulla copertina della tesi, qui però c'è qualcosa d'altro che vorrei dire.
Togliendo tutti i volumi dalla libreria per rinnovare il mobile e tinteggiare le pareti, i miei libri mi sono passati tutti fra le mani, quelli universitari e quelli di prima e di dopo, i saggi, i romanzi, le fiabe mie e dei miei figli. Ciascuno di essi ha una storia e me l'ha raccontata di nuovo mentre lo spolveravo per metterlo da parte.
Quel Polisensky mi è rimasto impresso, come alcuni degli altri grandi libri che l'Università mi ha permesso di leggere, per avermi fatto capire meglio non tanto la Guerra dei Trent'anni (cosa peraltro non disdicevole...) ma soprattutto perché il professore ce l'aveva prescritto, esattamente come un farmaco.
Ci sono titoli che acquisti o leggi solo se sei uno specialista o se un professore te li prescrive come una medicina utile per capire qualcosa: saggi spesso ostici, difficili da digerire e imparare, quasi sempre scoperte impensate e prese di coscienza di quanto ci sia da apprendere da chi ha trascorso la propria vita a studiare, confrontare, verificare sul campo o negli archivi.
Essermi laureata senza poter frequentare le lezioni per motivi di lavoro e di famiglia mi ha obbligato a leggere un sacco di libri in più in orari strani e situazioni spesso complicate, mi ha permesso però di avere accesso a scritti che altrimenti non avrei mai letto.
Ogni esame in più era una conquista da condividere con la mia famiglia, che partecipava ai miei sforzi con generosità, pazienza ed entusiasmo.
Ogni volta, immancabilmente, telefonavo dal telefono pubblico vicino alla Libreria Toletta per dare l'esito, tornata a casa riponevo in ordine i libri di quell'esame accanto a quelli già passati e la sera c'erano le pasterelle per festeggiare, previa visione da parte di tutti del libretto con il voto e la firma del docente.
Un libro dopo l'altro, un vassoio di pasterelle ogni tot di mesi, un pizzico di ignoranza in meno.
Fra qualche giorno arriverà la libreria nuova e i miei libri faranno il viaggio inverso, tornando sugli scaffali. Non ho ancora deciso esattamente quale criterio userò per riporli, di sicuro quelli più cari cercherò di farli stare insieme: ogni tanto li sfoglierò o darò solo un'occhiata di intesa e sapranno raccontarmi di nuovo un sacco di cose...
Tu sì che sei giovane. Derosas era mio compagno di corso quando a storia moderna c’era il prof. Cozzi.
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