Chi fra noi solo qualche settimana fa, poniamo il 1 gennaio dopo una serata e una notte di festa, avrebbe immaginato ciò che ci sta accadendo oggi? Qualcuno dotato di poco cervello continua a minimizzare, a volersi intestardire nel proseguire come se niente fosse, ma la stragrande maggioranza di noi ha capito che siamo di fronte a qualcosa di inaudito. E che ci spaventa soprattutto perché è sconosciuto e perché non sappiamo quando ne usciremo, non sappiamo quanti di noi potranno ammalarsi e, forse, non riuscire a vedere la fine dell'epidemia.
Viviamo, quindi, un periodo di grande incertezza, che si potrebbe riassumere con la parola "crisi". Crisi dell'economia, crisi delle relazioni sociali, crisi del sistema in generale.
Eppure... Gli antichi greci davano un significato diverso alla parola (loro che di pestilenze e accidenti vari erano esperti), consideravano la crisi un momento di cambiamento, di scelta, addirittura di forza distintiva e di giudizio.
Di sicuro qualche cosa l'abbiamo già capita, a causa di questo virus:
Siamo fragili, per nulla invincibili. Tutte le nostre certezze vanno in frantumi in un nonnulla: la costruzione delle nostre giornate, il rapporto con gli altri, il lavoro e le sue modalità. Ciò che consideriamo spesso fondamentale si è rivelato all'improvviso per ciò che è: un'appendice che ci aiuta a non pensare fino in fondo a ciò che siamo e che dovremmo essere. La nostra società ipertrofica e distratta verso buona parte del mondo mostra tutta la propria debolezza, i nostri piedi d'argilla tremano.
Abbiamo scoperto all'improvviso che ci sono davvero cose insostituibili, fondate sul lavoro e l'impegno di altri: i contadini e gli allevatori, i trasportatori, i volontari organizzati per bene, le istituzioni alle quali ci appendiamo ogni ora per avere supporto, conforto, speranza. Soprattutto abbiamo scoperto che esiste la sanità pubblica, quella che critichiamo spesso a vanvera perché vorremmo un operatore per ciascuno di noi per poi volerli licenziare in massa appena ci è passato il mal di pancia. Ci siamo accorti che chi lavora nella sanità è quasi sempre pagato meno di quanto merita, che i tagli apportati al servizio pubblico almeno negli ultimi 20 anni sono serviti soprattutto a ingrassare pance già piene e hanno sguarnito i reparti di medici, infermieri, OSS, addetti ai vari servizi. Abbiamo anche capito che non si diventa medici o infermieri su internet, che la conoscenza ha bisogno di tanto tempo, ricerca, impegno, esperienza. Abbiamo anche, forse, capito che nemmeno i luminari smettono di studiare e che neanche loro possono per forza salvarci: ce la mettono tutta ma non è detto che ci riescano. Dovremmo infine capire una volta per tutte che quegli scafandri che indossano in queste ore, i respiratori, i macchinari e tutto il resto costano, e parecchio. Facciamo bene ad applaudire ogni giorno chi sta lavorando indefessamente per noi rischiando più di noi: ricordiamocelo quando tutto sarà finito e cominciamo a chiedere la fattura o lo scontrino. Il servizio sanitario è pubblico, non gratis.
Stiamo iniziando a vedere le acque dei fiumi più limpide, a sentire l'aria più respirabile, ad apprezzare il silenzio e i rumori che la natura sa regalarci anche nelle nostre città: facciamone tesoro.
Ci siamo accorti che per problemi complessi non esistono soluzioni facili: siamo una società complicata in cui anche la gestione quotidiana delle famiglie è sottoposta a complicatissime fasi organizzative, spesso sulle spalle delle donne, che oggi compiono un ulteriore sforzo. E non mi soffermo sul problema enorme della gestione delle persone anziane o con disabilità, è difficile anche solo immaginare l'angoscia loro e dei loro familiari.
Da ultima la scuola, ancella povera di una società sbagliata che la considera quasi inutile, se non come parcheggio di pargoli difficili da tenere a casa.
Abbiamo scoperto la tecnologia, tutti gli insegnanti sono da giorni alle prese con mail, aule virtuali, lezioni on-line, registri elettronici che si "impallano" ogni mezz'ora, case editrici che invitano a usare le proprie piattaforme per lezioni interattive e quant'altro. Abbiamo scoperto che tutto questo è utile, utilissimo, fondamentale e probabilmente questa esperienza consentirà un altro passo avanti verso una scuola più duttile. Però ci sono almeno due però. Il primo riguarda il concetto di uguaglianza: non tutti gli alunni sono dotati degli stessi strumenti informatici e ancora una volta quelli più fragili sono quelli che faticano di più o che hanno rinunciato a imparare, magari perché il loro ambiente familiare non è in grado di aiutarli, né dal punto di vista educativo né da quello economico.
Il secondo però è connesso al primo: oggi non è possibile per ovvi motivi, ma gli studenti stanno bene a scuola, anche se, ahinoi, nei bagni manca spesso il sapone e le aule somigliano a pollai, i muri sono scrostati... A scuola ci sono loro, però, insieme a noi e a tutti quelli che ci lavorano ogni giorno. La scuola è soprattutto comunità. Il nuovo utilizzo massiccio della tecnologia (e per fortuna che c'è) ci ha insegnato proprio che la scuola, quella vera, è insostituibile.
Pare che gli italiani (chissà, un giorno anche gli europei...) abbiano imparato a lavarsi le mani. Ora comincino a scegliere, giudicare, fare propria la forza distintiva e la capacità di cambiamento che ci insegnano ancora oggi, dopo millenni, gli antichi greci e dismettano i panni di Ponzio Pilato per vestire quelli della consapevolezza e della disponibilità a capire che cosa è davvero fondamentale e cosa, invece, è superfluo. Il superfluo è spesso utile, importante è dare il giusto peso alle cose.
Intanto ascoltiamo chi ne sa più di noi e #stiamoacasa
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