Capita, a Venezia, che svolti dopo una calle e ti ritrovi in un mondo diverso. All'improvviso il flusso incessante dei turisti si interrompe, il vociare si fa più lontano e la città si fa ascoltare, scoprire, riesce comunque a stupire.
Pochi, una volta ammirati Tintoretto e Tiziano, si accorgono del portone (piccolo se commisurato alla magnificenza della chiesa adiacente) accanto alla chiesa dei Frari, proprio sul canale, eppure l'Archivio di Stato di Venezia è proprio lì: chilometri di faldoni capaci di illustrare fin nelle pieghe più nascoste e impensate la millenaria storia della Serenissima, i suoi bizantinismi e la sua organizzazione, la sua attenzione ai particolari e la costante preoccupazione per un dominio e una città continuamente minacciati da avvenimenti più grandi di lei.
Santa Maria del Giglio, con la sua lunghissima storia, le sue opere meravigliose e le splendide nicchie esterne sorge poco lontano da San Marco. Costeggiandola si giunge in riva a un altro canale, proprio sul retro della Fenice. Anche lì c'è un portone, tutto sommato anonimo, da cui si accedeva a un luogo prezioso, vivido di pensiero e attività: uno fra i primi Dipartimenti di Studi Storici d'Italia non poteva che nascere a Venezia, dove la Storia e le storie si intrecciano da secoli e dove i complessi accadimenti, gli intrecci della Repubblica di Venezia con il suo dominio e con il resto del mondo riescono a riservare ancora sorprese. In quel vecchio palazzo, del tutto inadatto dal punto di vista logistico a contenere aule universitarie, migliaia di studenti hanno avuto il privilegio di imparare da luminari assoluti, di scoprire il mondo della ricerca, la passione di non accontentarsi mai e di continuare a cercare, ben sapendo che dagli archivi escono sempre notizie che non ti saresti aspettato e che, addirittura, possono mettere in crisi le teorie che lo studioso si era fatto prima nella testa.
Sì, perché la ricerca storica è così, maestri come Cozzi, Berengo e altri hanno insegnato a tutti noi che sopra ad ogni altro valore bisogna collocare l'onestà intellettuale, la pazienza e l'umiltà.
Il mio maestro, Marino Berengo, abitava in un palazzetto lungo un rio minore, vicino alle Fondamenta Nuove ma dove non arrivano gli echi dei vaporetti e delle onde; quando svoltavo da Campo Santi Apostoli per andare da lui, ancora una volta pensavo al privilegio di poter frequentare Venezia in quel modo, entrando in luoghi che mi facevano crescere, non solo come studentessa ma come essere umano.
In Dipartimento, "al Giglio" come si diceva in gergo, il numero di telefono di casa del Professor Berengo, accademico dei Lincei per dire solo di uno dei suoi titoli, era appeso in bacheca, a disposizione dei laureandi. A nessuno veniva in mente di fargli scherzi o di importunarlo inutilmente, tanto lui era sempre lì all'Università, a spiegare, discutere, insegnare, in aula come nei corridoi o sulle scale. Era malfermo di salute, ma una roccia nello svolgere il suo dovere, il suo lavoro, fino alla fine.
In assenza di internet andavo a casa sua a discutere l'avanzamento della tesi e mi chiedevo come facessero a starci, tutti quei libri, in uno studio. Ne aveva migliaia e migliaia, poi, in scaffali di ferro zincato che occupavano quasi tutto il piano terra della casa: li trovava con fiuto infallibile a colpo sicuro, magicamente li apriva nel punto giusto per indicarmi una nuova idea di ricerca, darmi uno spunto diverso, indirizzarmi al meglio.
Ed era un uomo allegro e simpatico, amante della buona cucina (sosteneva di cucinare il ragù più buono di Venezia...), ospite impeccabile (mi accoglieva sempre col caffè o il tè pronto), ma totalmente nemico delle nuove tecnologie, compresa la tastiera del telefono fisso di casa, per le quali si serviva della consulenza paziente e innamorata di sua moglie, la professoressa Segre, ordinaria all'Università di Tel Aviv.
Uscivo ricca da casa sua e il giorno della laurea avrei voluto abbracciarlo per tutto ciò che mi aveva donato, per aver insegnato a me e a tutte le centinaia di allievi che aveva avuto durante la sua lunga carriera il valore della cultura e della sua diffusione, l'importanza di dare agli altri ciò che si è imparato, a patto che questi abbiano la voglia e l'umiltà di imparare.
Perché parlarne oggi? Non c'è nessun anniversario, se non la mia contentezza per aver trovato una copia quasi del tutto esaurita di una sua opera sulla quale ho passato "qualche" ora di studio.
È presto detto. Lui, e come lui tantissimi altri, ha trascorso l'intera vita a studiare, a non accontentarsi, a leggere e rileggere, spiegare e rispiegare, stupirsi ogni volta di fronte a ciò che non conosceva ancora.
È bello svoltare, dopo una calle, una strada, una banalità e fermarsi a scoprire quanto c'è ancora da sapere; è affascinante imparare a riconoscere i maestri da quell'aura di serenità che li avvolge, dalla loro insistenza nel non accontentarsi del primo libro letto e neanche del centesimo, dal desiderio di divulgare e imparare per tutta la vita.
Grazie, Marino Berengo
Bellissimo ricordo è bella riflessione sulla storia. Grazie Isabella.
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