Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

domenica 4 novembre 2018

Un centenario strattonato #4novembre

Un centenario accade una volta sola, i prossimi saranno ricordati dagli storici e da chi verrà molto dopo di noi.
Ce ne hanno parlato fino alla nausea negli anni scorsi, appena iniziato questo lunghissimo periodo di celebrazioni, abbiamo ascoltato interviste, qualcuno ha letto dei libri, visto film spesso di assai dubbia fattura e ancor meno rigore storiografico; abbiamo anche saputo che la Francia, nazione degna di questo nome, ha per esempio ricordato e celebrato Verdun per tutto il 2016, accompagnando le scolaresche a visitare il luogo del disastro, della carneficina di seicentomila uomini avvenuta praticamente durante tutto il 1916. Un avvenimento tremendo, un massacro.
Poi, nella nostra piccola Italia, si sono moltiplicate le iniziative, soprattutto nel nordest, là dove correvano i seicento chilometri del fronte nel 1915 e dove il Piave mormorò: mostre, musei e trincee restaurati, cori, pièces teatrali, conferenze, raduni delle associazioni combattentistiche... 
Con una novità: in questo centenario ci si è finalmente resi conto che esistevano anche le donne e si è cercato in qualche modo di riparare a decenni di polveroso e colpevole silenzio.
Tutto con un unico leit motiv: bisogna che i giovani imparino, bisogna trasmettere ai giovani la memoria, i giovani devono sapere, i giovani...
Ora che il 4 novembre sta volgendo al termine, oltre al plauso a quanti, comunque e quasi sempre con pochi mezzi, si sono dati da fare, sorge spontanea la domanda: esattamente cos'è che dobbiamo tramandare ai giovani? Che cosa dovrebbero ricordare? Perché tutto questo è così importante?
Che cosa stiamo insegnando loro se ancora non riusciamo a condividere la memoria di ciò che accadde a Caporetto, se non riusciamo a distinguere tra Cadorna e Diaz, se non ragioniamo su come erano la società e la politica italiane un secolo fa, se ci ostiniamo a strattonare la Storia cercando di farla coincidere con la politica odierna, trasformando i protagonisti, soprattutto quelli inconsapevoli di allora, in bandiere buone per l'una e l'altra parte in lotta?
Soprattutto, siamo capaci una buona volta di distinguere tra le piccole patrie di ciascuno di noi, una Patria più grande che allora aveva poco più di cinquant'anni e il fatto che si trattò di un conflitto mondiale e non limitato ai nostri luoghi epici?
Lo so, la storia è faccenda complicata, ma non è banalizzandola che la si rende più digeribile, non è con l'improvvisazione che si costruisce un sentire condiviso, che si costruisce un'idea, un sentimento nazionale, che, sia ben chiaro, è tutt'altra cosa rispetto al nazionalismo.
Oggi nessuno di noi riesce a immaginare cosa significasse stare in una trincea, nessuno di noi saprebbe resistere alla fatica, alle privazioni che erano pane quotidiano per le donne e gli uomini di cento anni fa, e non è facendone un mito che si avvicinano i famosi "giovani" all'amore per la storia, al rispetto per chi ha subito tutto quello, all'impegno affinché non accada mai più.
Sentire, in questi giorni, frasi sovraniste o, peggio, razziste, affiancate alla memoria della Grande Guerra dà un senso di nausea, di rabbia, di profonda ingiustizia: se a qualcosa dovrebbero servire le cifre atroci dei circa 17 milioni di morti sarebbe proprio per comprenderne la profonda follia. I confini d'Europa, che furono rimessi in discussione nemmeno trent'anni dopo dalla follia nazista e fascista, sono stati tracciati col sangue di milioni di innocenti, non importa da che parte combattessero.
Lo stesso vale per chi vorrebbe trattare tutti i soldati, i civili che resistettero e si difesero, le donne come delle povere marionette ignoranti: non fu così, non fu solo così. I Veneti non erano mai stati tedeschi e nemmeno loro amici, i trentini invece spesso non si fidavano del Paese di cui parlavano la lingua, ma che era una nazione debole e nata da poco. Sarebbe ora di ridare dignità ai nostri nonni e bisnonni, immaginando che furono anche capaci di compiere delle scelte, di combattere per ciò in cui credevano.
Con tutta la pelosa retorica di queste giornate la provincia di Treviso, per esempio, non è nemmeno riuscita a far sì che il Ponte della Priula fosse restaurato e inaugurato prima di questo 4 novembre insieme al monumento che c'è sulla sua riva sinistra: avremmo non solo evitato i danni della piena dei giorni scorsi, ma dato corpo alle celebrazioni, dimostrando di essere capaci di atti concreti.
Invece, in generale, siamo un Paese che troppo spesso arriva in ritardo agli appuntamenti, che si appella ai giovani ma si dimentica di trattare davvero come sacri i luoghi della propria memoria, dalle piccole lapidi dei comuni sparsi in tutta Italia fino ai monumenti, ai sacrari e agli ossari dei luoghi delle battaglie, da Redipuglia a Nervesa, dal Monte Grappa al Falzarego, dal Pasubio alla Carnia...

Il prossimo anno, in realtà, il centenario continuerà: il trattato di pace di Versailles del 1919 tentò di ridisegnare la carta politica d'Europa, cancellando, quello sì, consuetudini, lingue, minoranze, convivenze vecchie di secoli, consegnando ai decenni successivi la mancata risoluzione dei nuovi drammi, delle grandi tragedie dimenticate perché immolate sull'altare di nuove ragion di stato che in breve ci portarono all'immane tragedia della seconda guerra mondiale e che, in parte, sopravvivono anche oggi.
Ecco, di questo, se fossimo seri, potremmo cominciare a parlare ai giovani, vale a dire di confini, di come fu deciso a tavolino il destino di milioni di donne e di uomini stanchi e, comunque, sconfitti, del fatto che si tratta di costruzioni quasi sempre arbitrarie, che cancellano identità e diritti, altro che sovranismo!
Oggi dovrebbe essere una giornata di riflessione, non di urla, di ricordo e rispetto, di onore a quanti hanno versato il proprio sangue. Non ci serve una retorica bolsa di vittoria (magari mutilata), semmai uno sguardo unitario al tricolore, ricordando che la nostra bandiera è figlia di una stagione di grandi speranze, di grandi lotte in nome della libertà e dell'uguaglianza.

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