L'aria condizionata non basta a spegnere l'ansia, l'agitazione a uno sportello dell'ACTV. Accanto a turisti e utenti un'impiegata tenta in tutti i modi di calmare una signora, non tanto avanti negli anni, ma in evidente stato di crisi e sulla soglia della povertà. È disperata, non ha la tessera per muoversi coi mezzi pubblici, non ha nemmeno i documenti per rinnovarla e, soprattutto, non ha i soldi per questi e per quelli. Le ciabatte due numeri più grandi mostrano impietose due piedi puliti ma bisognosi di cure che non riceveranno mai, le sporte mezze piene di chissà che cosa non contengono denaro, la situazione di disagio e, immagino io, di vergogna, le appiccica i capelli alla testa.
Se ne va quando capisce di non poter risolvere nulla, con sollievo dell'incolpevole impiegata e dei timpani degli astanti, alcuni divertiti dal siparietto che fa tanto colore locale, altri infastiditi dal rumore, qualcuno muto davanti a un esempio di umanità sofferente.
Chissà in quale parte della città in perenne vacanza verrà inghiottita la signora esausta, caracollante nelle sue ciabatte troppo grandi. Penso che per fortuna siamo in estate e almeno non patirà il freddo, ovunque vada.
Fuori, il consueto brulicare di gambe, valigie, voci che sovrastano il placido rumore dell'acqua.
Lei, maestosa e quasi rassegnata, si mostra in tutta la sua bellezza, nel suo essere un unico grande museo a cielo aperto, nella sua capacità di stregare chiunque, da sempre, nel suo invito ad essere scoperta: sono migliaia le pagine che si potrebbero leggere dentro e fuori ogni palazzo, ogni rio, ogni ponte, ogni calle, non basterebbe una vita a leggerle tutte.
Da anni non percorrevo il Canal Grande in vaporetto (vengo quasi sempre di corsa e faccio prima a piedi...), ma oggi ce lo gustiamo, Lucia e io, consapevoli di essere comparse di uno spettacolo che si ripete da secoli, scontato forse, ma di incomparabile bellezza.
Se turismo deve essere, turismo sia, compreso il bel giovane californiano con la sua ragazza felice di aver pagato un prosecco e gli stuzzichini a un'orda di gondolieri ancora più felici di lui: l'osteria risuona delle loro battute, i due innamorati bevono spritz e ringraziano il "Bepi" di turno e i suoi compari che escono, ovviamente rumorosamente, e tornano al loro lavoro-ruolo di interpreti della grande sceneggiata veneziana in cartellone ogni giorno. Impassibile l'americano firma lo scontrino della carta di credito, la sua ragazza pare somigliare un po' a quelle che ho visto poco prima farsi i selfie davanti all'ingresso dell'Harry's Bar.
È la piazza, però, che racconta meglio ciò che significa, per il mondo, la parola Venezia. Manca poco al tramonto e le tessere dei mosaici della Basilica di San Marco iniziano a risplendere di una luce diversa: sono i raggi del sole che se ne va a donarle, se possibile, ancora più maestosità.
È grande la facciata, ornata, decorata, ingioiellata eppure così leggiadra: ci è toccata una guida del tutto incapace di spiegare tanta bellezza, sicuramente non degna di un luogo così importante e così sacro, per la spiritualità e per la storia. Mentre lei racconta storielle improbabili pensando che chi ha pagato sia un gonzo ignorante (capita anche questo, nelle splendide città d'arte italiane, uno scandalo), decidiamo di togliere le cuffiette e sederci di fianco al campanile e guardarci intorno.
Va in scena un altro atto della commedia quotidiana. Lucia mi fa notare che in fondo alla scala sociale esistono i venditori clandestini di mais per i piccioni: estraggono a manciate i chicchi dalle tasche rincorrendo i turisti. Turisti che, parlando una babele di lingue, vestiti in ogni foggia, con ai piedi infradito da 2 euro oppure sandali da 1000 passano di continuo avanti e indietro, alzando ormai appena lo sguardo verso i mosaici, o l'orologio, le Procuratie, San Giorgio là di fronte. Il giorno sta finendo e sono certamente esausti: tanta bellezza alla fine fa star male, meglio riporre le guide negli zaini, meglio far finta di non essere in uno dei luoghi più belli mai creati dalla sapienza umana, impossibile cercare di capire, sapere ancora qualcosa. Tanto ogni pietra, qui, avrebbe qualcosa da raccontare, ogni lunetta della facciata mille perché, mille simbolismi.
Mi soffermo solo sul bassorilievo sopra la Porta della Carta: il doge, piccolo, è inginocchiato davanti al leone di San Marco, molto più grande. Per un attimo rimetto le cuffiette, sperando che la guida racconti il perché del nome della Porta, il significato del bassorilievo... Sta raccontando che il Patriarca vive dentro la basilica e pochi giorni fa ha offerto il gelato ai bambini che stavano per affrontare l'esame di terza media. Spengo definitivamente l'audio: questa guida sta offendendo non solo chi ha pagato ma anche la sua città: dice di amarla ma non è vero, la sta sfruttando tanto quanto i turisti distratti che perdono olio e pomodoro da improbabili pizze proprio sul lastricato del salotto più bello del mondo.
A rimettere tutto al suo posto ci pensa la basilica, aperta di sera per l'occasione.
Quando entriamo è ancora deserta, in penombra, maestosa e tacita.
Per fortuna quando, con mosse studiate, gli addetti iniziano ad accendere le luci una ad una le guide tacciono, nessuno osa proferire parola: siamo privilegiati in un luogo che risplende, affascina, ammalia. Immensa, avvolgente la Basilica di San Marco: esce una lacrima di commozione.
È quasi buio e anche il vaporetto è meno pieno, scivola sull'acqua incontro al tramonto, qualche coppia di innamorati sogna, com'è inevitabile, l'addetto agli attracchi, da buon veneziano acquisito con un improbabile accento veneto-slavo (vuoi vedere che è parente di qualche Zaratino tornato sul luogo del misfatto?) sa come intrattenere, tra il serio e il faceto, noi signore, né innamorate né turiste per caso.
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