Il male assoluto è esistito ed è sempre in agguato, là dove l'odio e l'indifferenza verso "l'altro" prendono il sopravvento. È il male assoluto non dei mostri, ma degli uomini qualunque, piccoli e insignificanti, resi onnipotenti da chi si gira dall'altra parte, quelli che rendono possibile la banalità del male.
Il
secolo appena trascorso, quel Novecento chiamato anche il “secolo
breve” è stato insieme sogno e abominio, altezza ideale e massacro
organizzato, sogno democratico, avvio e morte di dittature
sanguinarie. I due conflitti mondiali hanno procurato all''incirca 80
milioni di morti.
In
tutto questo mare di dolore e sangue noi oggi ricordiamo ciò che
difficilmente riusciremmo ad immaginare, a concepire se non avessimo
visto coi nostri occhi le immagini, non avessimo letto ed ascoltato
le testimonianze, ciò che le stesse vittime sopravvissute erano
convinte di non dover nemmeno raccontare: nessuno ci avrebbe creduto.
Perché
non si può credere che qualcuno decida di sterminare chi è diverso
per un qualsiasi motivo: colore della pelle, religione, opinione,
gusti sessuali, modo di vivere.
Eppure
è accaduto; eppure, in parte, accade ancora: lo sterminio nei campi
di concentramento nazisti degli ebrei, degli omosessuali, degli
zingari, degli oppositori e di chiunque potesse essere considerato
diverso è una macchia incancellabile nella storia dell’umanità,
un’onta per la quale la Germania di oggi, libera e democratica, ha
chiesto scusa al mondo intero.
I
binari corrono sempre paralleli, il treno viaggia su di essi, ne
segue le curvature ma non può cambiare direzione a piacimento.
Non
potevano cambiare direzione i lunghi convogli carichi di persone
gettate nei carri bestiame senza diritto di mangiare, bere, lavarsi,
assistiti qualche volta dalla pietà di quanti sfidarono, anche a
Conegliano, i soldati tedeschi per dare un po' d'acqua o di pane a
quell'umanità sofferente.
Oggi
ricordiamo la liberazione di Auschwitz: in molti si sono chiesti che
cosa impedì al popolo tedesco di ribellarsi a tanta violenza, come
fosse possibile non rendersi conto di quanto stava accadendo.
Eppure... abbiamo poi capito che la "banalità del male"
può colpire sempre, l'ha fatto ancora, con la complicità di
quell'altra caratteristica tutta umana, l'indifferenza. Dobbiamo però
interrogare anche la nostra coscienza nazionale: dimentichi della
“banalità del male” non ci chiediamo magari perché (e scelgo
questo esempio per l'importanza del protagonista) un uomo come
Giuseppe Bottai, pure non antisemita, mise tanta efficienza
nell'applicazione delle leggi razziali nelle scuole italiane: varate
nell'estate del 1938, il ministro si impegnò al massimo perché
l'anno scolastico successivo iniziasse “in regola”, cacciando
professori e studenti italiani,
relegandoli nella paura e nella vergogna, marchiandoli per sempre ed
esponendoli, poi, alla furia nazista. Si vergognò, in seguito, visto
che non ebbe il coraggio di pubblicare, nel suo “Vent'anni in un
giorno” ciò che disse il 6 ottobre di quell'anno: “Riammettendo
gli ebrei nell'insegnamento noi abbasseremmo il livello morale della
scuola”. Il male, però, era stato fatto.
Per
ogni ebreo catturato grazie alla delazione, i tedeschi davano tremila
lire, che all'epoca erano una cifra importante. Cos'era la vita di
altri uomini, di donne, di bambini inermi di fronte al mito del
denaro?
Gli
ebrei italiani erano e sono fra i più mescolati alla popolazione, da
sempre inseriti nel contesto sociale, non sono distinguibili dal
resto dei cittadini, avevano amici, colleghi, compagni di scuola,
qualcuno era anche sinceramente fascista, eppure diecimila di loro
furono caricati sui treni e mandati a morire, insieme agli
oppositori, agli zingari, agli omosessuali.
Così
inizia “La storia”, il romanzo più famoso di Elsa Morante:
“Dove
andiamo? Dove ci portano?
Al
paese di Pitchipoi.
Si
parte che è ancora buio, e ci s'arriva che già è buio
E'
il paese dei fumi e delle urla
Ma
perché le nostre madri ci hanno lasciato?
Chi
ci darà l'acqua per la morte?
Quei
treni arrivavano a destinazione con un carico di dolore ancora
piccolo di fronte a ciò che sarebbe accaduto:
“Il
treno si ferma – io stavo sotto la grata, sotto l'apertura in alto
– guardo, e vedo una catasta di cadaveri, non so saranno stati...
sessanta, settanta cento non lo so: tutti nudi, una catasta, una
montagnola, proprio vicino ai binari. Io se non sono impazzito in
quel momento non impazzirò mai più...”.
I
sopravvissuti iniziarono a raccontare dopo anni, qualcuno decenni,
alcuni non lo fecero mai. Nessuno di loro riuscì a dimenticare, gli
incubi li accompagnarono per tutta la vita.
Quella
vita che, nell'orrore, aveva perduto ogni valore, insieme
all'umanità, alla coscienza di sé, al pudore, ai sogni.
Orrore
nell'orrore, uno spazio speciale riguarda le donne, destinate ad
ulteriore dolore, umiliazione, svilimento, ridotte a corpi che i
nazisti non dovevano nemmeno toccare per non
diventare impuri.
"Mi
hanno spogliata di tutto, completamente, di tutto di tutto di tutto.
Con un vestitaccio addosso e due scarpe che non erano mai uguali,
sono entrata nel campo, un inferno, in un mondo completamente nuovo".
"Quando
entravi pensavi subito: come faccio quando ho le mestruazioni?.
Questo è terribile perchè per almeno un mese le avevi - e
naturalmente non avevi come ripararti - e anche questo voleva dire
trovarsi di nuovo ridotta come una bestia. Le compagne più anziane
ti dicevano: <Stai tranquilla che poi quest'altro mese non le
avrai più> . All'uomo questo shock non succedeva, come non gli
poteva capitare di arrivare già incinta nel campo. Molte donne erano
entrate senza neppure sapere di essere incinte. Mi ricordo una volta
che ho incontrato una francese, che continuava a cercare delle erbe,
delle radici, le tirava fuori le ripuliva le mangiava. Diceva: <ah,
per forza! Devo nutrirlo, dicono che la guerra finisce entro due
mesi, devo farlo sopravvivere per quando tornerò in Francia>. E
invece ne sono passati di mesi...
I
ragazzi si offrivano volontari per manovrare il carro che portava il
cibo nelle baracche delle donne: unica speranza per vedere, forse, la
propria madre, pregando che non fosse fra i corpi morti portati fuori
in braccio ogni mattina dalle altre detenute per far tornare la
"contabilità" del campo.
Le
donne furono doppiamente vittime, colpite nella dignità di madri, di
donne, costrette a subire ciò che non avrebbero mai nemmeno
immaginato: nessuna pietà per loro, nulla che permettesse loro di
considerarsi ancora, semplicemente, donne.
Eppure
quattro di loro rubarono dell'esplosivo per cercare di apportare
danni alla fabbrica della morte: il loro sacrificio, ancora una
volta, dimostrò quanta sia, da sempre e per sempre, la nostra forza,
portatrici per natura di vita.
Oggi chi visita
Auschwitz lo fa in silenzio, solo le guide parlano e oltre alla loro
voce si sente solo lo scalpiccio delle centinaia di scarpe che
calpestano il terreno, con lo stesso, inconfondibile rumore che fanno
i passi dietro ai carri funebri: quello è un immenso cimitero; lì,
ad ogni passo, sappiamo che in qualche modo si cammina sul dolore e
sulla memoria.
Ci sono stata, ironia
della sorte, un 8 marzo. Ricordo l'ingresso nel blocco 4: i gradini
sono consumati dai milioni di piedi che li hanno calpestati, dentro
si entra davvero nell'inferno e le lacrime cominciano a scorrere
senza freno.
Lo "Ziclon B"
uccideva gli esseri umani in circa 20 minuti, soffocandoli con il
cianuro. Soltanto ad Auschwitz fra il 1942 e il 1943 ne furono usati
20.000 kg, la ditta produttrice guadagnò 300.000 marchi dalla sua
vendita.
Per uccidere 1500
persone erano necessari 5-7 kg di veleno.
L'inferno più nero
appare con le tonnellate di capelli rasati ai cadaveri prima di
bruciarli, con le scarpe degli adulti e quelle dei bambini in mostra
dietro immense teche, le valigie coi nomi e le date di nascita, le
stoviglie portate da casa per cominciare una nuova vita.
Testimonianze di vite stroncate da un inganno immane, che non avrà
mai perdono.
Ogni buon padre ebreo
sa che deve far studiare il proprio figlio, sa che dalla Torah
imparerà i principi buoni per l'intera vita: migliaia e migliaia di
paia di occhiali aiutavano occhi che non hanno più potuto vedere.
La cenere ha
ricoperto per anni questo suolo, quello di Birkenau e di tutti gli
altri luoghi di sterminio, in uno stillicidio di lutti, di orrore.
Fra le lacrime e i pensieri del lavoro strenuo, ripagato con freddo e
fame, delle torture che portavano a morte sicura, quel giorno ho
chiesto alla guida come facesse a sopportare ogni giorno quel carico
di dolore.
La sua risposta è
stata lapidaria e mi ha fatto pensare e soffrire ancora di più: "E'
un privilegio".
Aveva ragione: è un
privilegio poter parlare, poter affermare, credere, volere che solo
attraverso la conoscenza di ciò che è stato abbiamo la speranza che
non accada mai più.
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