Bilancio preventivo 2017, l'ultimo di questa Amministrazione. Nonostante gli annunci fatti alla stampa, l'unica cosa certa è che in primavera, appena prima delle elezioni, si provvederà ad asfaltare un po' di strade. Nel Piano Triennale delle Opere pubbliche, ciò che si dice di finanziare nel 2017, si dichiara poi che potrà essere fatto a partire dal secondo trimestre del 2018. Forse.
E così gli alloggi popolari di Via Cacciatori delle Alpi, per ristrutturare i quali esiste un finanziamento regionale di 450.000 €, resteranno ancora lì, murati a fare brutta figura in un quartiere che invece merita di essere restituito alla dignità. Il finanziamento scadrà il prossimo 9 marzo, ma il Sindaco dice che sarà in grado di fare un miracolo... Ce ne vorrebbe più di uno, per lo stato in cui è Conegliano.
Ma la vera e propria telenovela, degna di Hollywood, riguarda l'ex Caserma Marras. Ieri sera in Consiglio Comunale mi sono permessa di fare un po' di cronistoria. Ai posteri l'ardua sentenza, diceva il grande scrittore.
2007: Il Bilancio di previsione prevede 2.500.000 € per il restauro e la destinazione a biblioteca e centro culturale.
2009: 1.500.000 + 200.000 del mutuo vengono destinati ad altre opere, fra cui la splendida Pinacoteca Martini che, fra parentesi, oggi possiamo ammirare al ...Museo Bailo di Treviso.
2010: Nel programma di investimenti dallo stesso mutuo vengono stornati 550.000 € per altri lavori.
2011: La stessa cifra viene destinata a restaurare il tetto della Marras.
2012: Si mettono a bilancio 150.000 € di interventi urgenti per il tetto, in parte crollato nell'ottobre 2011 (l'urgenza ha fatto sì che non si sia fatto nulla).
2013: Dal mutuo Marras si devolvono 550.000 € per la ...Marras (sic!).
2014: In fase di consuntivo si immaginano i soliti 550.000, così nel 2015.
2016: Nel programma di investimenti la Marras scompare e ricordo che il Sindaco mi rispose ironicamente che le cifre si scrivono in bilancio tanto per fare...
2017: Grande annuncio: la Marras si farà, o meglio si rimetterà a posto il tetto... Però con 500.000 €: gli altri 50.000 che fine hanno fatto? Non servono più? Colpa della deflazione?
Io, la solita sciocca, immaginavo che stamattina, una volta approvato il bilancio, si sarebbe dato avvio alle procedure di gara, con progetto esecutivo e tutto il resto...
Ah, no, mi sono sbagliata ancora una volta: il programma delle opere pubbliche prevede l'inizio dei lavori nel secondo trimestre del 2018...
A Hollywood sono dei dilettanti, la Dinasty della Marras continua, potremmo chiamare questa storia "Destiny", un triste destino e, di sicuro, l'ennesima presa in giro per tutti i Coneglianesi.
L'ora di finirla è arrivata.
Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.
martedì 31 gennaio 2017
venerdì 27 gennaio 2017
#giornatadellamemoria Il male assoluto è sempre in agguato
Il male assoluto è esistito ed è sempre in agguato, là dove l'odio e l'indifferenza verso "l'altro" prendono il sopravvento. È il male assoluto non dei mostri, ma degli uomini qualunque, piccoli e insignificanti, resi onnipotenti da chi si gira dall'altra parte, quelli che rendono possibile la banalità del male.
Il
secolo appena trascorso, quel Novecento chiamato anche il “secolo
breve” è stato insieme sogno e abominio, altezza ideale e massacro
organizzato, sogno democratico, avvio e morte di dittature
sanguinarie. I due conflitti mondiali hanno procurato all''incirca 80
milioni di morti.
In
tutto questo mare di dolore e sangue noi oggi ricordiamo ciò che
difficilmente riusciremmo ad immaginare, a concepire se non avessimo
visto coi nostri occhi le immagini, non avessimo letto ed ascoltato
le testimonianze, ciò che le stesse vittime sopravvissute erano
convinte di non dover nemmeno raccontare: nessuno ci avrebbe creduto.
Perché
non si può credere che qualcuno decida di sterminare chi è diverso
per un qualsiasi motivo: colore della pelle, religione, opinione,
gusti sessuali, modo di vivere.
Eppure
è accaduto; eppure, in parte, accade ancora: lo sterminio nei campi
di concentramento nazisti degli ebrei, degli omosessuali, degli
zingari, degli oppositori e di chiunque potesse essere considerato
diverso è una macchia incancellabile nella storia dell’umanità,
un’onta per la quale la Germania di oggi, libera e democratica, ha
chiesto scusa al mondo intero.
I
binari corrono sempre paralleli, il treno viaggia su di essi, ne
segue le curvature ma non può cambiare direzione a piacimento.
Non
potevano cambiare direzione i lunghi convogli carichi di persone
gettate nei carri bestiame senza diritto di mangiare, bere, lavarsi,
assistiti qualche volta dalla pietà di quanti sfidarono, anche a
Conegliano, i soldati tedeschi per dare un po' d'acqua o di pane a
quell'umanità sofferente.
Oggi
ricordiamo la liberazione di Auschwitz: in molti si sono chiesti che
cosa impedì al popolo tedesco di ribellarsi a tanta violenza, come
fosse possibile non rendersi conto di quanto stava accadendo.
Eppure... abbiamo poi capito che la "banalità del male"
può colpire sempre, l'ha fatto ancora, con la complicità di
quell'altra caratteristica tutta umana, l'indifferenza. Dobbiamo però
interrogare anche la nostra coscienza nazionale: dimentichi della
“banalità del male” non ci chiediamo magari perché (e scelgo
questo esempio per l'importanza del protagonista) un uomo come
Giuseppe Bottai, pure non antisemita, mise tanta efficienza
nell'applicazione delle leggi razziali nelle scuole italiane: varate
nell'estate del 1938, il ministro si impegnò al massimo perché
l'anno scolastico successivo iniziasse “in regola”, cacciando
professori e studenti italiani,
relegandoli nella paura e nella vergogna, marchiandoli per sempre ed
esponendoli, poi, alla furia nazista. Si vergognò, in seguito, visto
che non ebbe il coraggio di pubblicare, nel suo “Vent'anni in un
giorno” ciò che disse il 6 ottobre di quell'anno: “Riammettendo
gli ebrei nell'insegnamento noi abbasseremmo il livello morale della
scuola”. Il male, però, era stato fatto.
Per
ogni ebreo catturato grazie alla delazione, i tedeschi davano tremila
lire, che all'epoca erano una cifra importante. Cos'era la vita di
altri uomini, di donne, di bambini inermi di fronte al mito del
denaro?
Gli
ebrei italiani erano e sono fra i più mescolati alla popolazione, da
sempre inseriti nel contesto sociale, non sono distinguibili dal
resto dei cittadini, avevano amici, colleghi, compagni di scuola,
qualcuno era anche sinceramente fascista, eppure diecimila di loro
furono caricati sui treni e mandati a morire, insieme agli
oppositori, agli zingari, agli omosessuali.
Così
inizia “La storia”, il romanzo più famoso di Elsa Morante:
“Dove
andiamo? Dove ci portano?
Al
paese di Pitchipoi.
Si
parte che è ancora buio, e ci s'arriva che già è buio
E'
il paese dei fumi e delle urla
Ma
perché le nostre madri ci hanno lasciato?
Chi
ci darà l'acqua per la morte?
Quei
treni arrivavano a destinazione con un carico di dolore ancora
piccolo di fronte a ciò che sarebbe accaduto:
“Il
treno si ferma – io stavo sotto la grata, sotto l'apertura in alto
– guardo, e vedo una catasta di cadaveri, non so saranno stati...
sessanta, settanta cento non lo so: tutti nudi, una catasta, una
montagnola, proprio vicino ai binari. Io se non sono impazzito in
quel momento non impazzirò mai più...”.
I
sopravvissuti iniziarono a raccontare dopo anni, qualcuno decenni,
alcuni non lo fecero mai. Nessuno di loro riuscì a dimenticare, gli
incubi li accompagnarono per tutta la vita.
Quella
vita che, nell'orrore, aveva perduto ogni valore, insieme
all'umanità, alla coscienza di sé, al pudore, ai sogni.
Orrore
nell'orrore, uno spazio speciale riguarda le donne, destinate ad
ulteriore dolore, umiliazione, svilimento, ridotte a corpi che i
nazisti non dovevano nemmeno toccare per non
diventare impuri.
"Mi
hanno spogliata di tutto, completamente, di tutto di tutto di tutto.
Con un vestitaccio addosso e due scarpe che non erano mai uguali,
sono entrata nel campo, un inferno, in un mondo completamente nuovo".
"Quando
entravi pensavi subito: come faccio quando ho le mestruazioni?.
Questo è terribile perchè per almeno un mese le avevi - e
naturalmente non avevi come ripararti - e anche questo voleva dire
trovarsi di nuovo ridotta come una bestia. Le compagne più anziane
ti dicevano: <Stai tranquilla che poi quest'altro mese non le
avrai più> . All'uomo questo shock non succedeva, come non gli
poteva capitare di arrivare già incinta nel campo. Molte donne erano
entrate senza neppure sapere di essere incinte. Mi ricordo una volta
che ho incontrato una francese, che continuava a cercare delle erbe,
delle radici, le tirava fuori le ripuliva le mangiava. Diceva: <ah,
per forza! Devo nutrirlo, dicono che la guerra finisce entro due
mesi, devo farlo sopravvivere per quando tornerò in Francia>. E
invece ne sono passati di mesi...
I
ragazzi si offrivano volontari per manovrare il carro che portava il
cibo nelle baracche delle donne: unica speranza per vedere, forse, la
propria madre, pregando che non fosse fra i corpi morti portati fuori
in braccio ogni mattina dalle altre detenute per far tornare la
"contabilità" del campo.
Le
donne furono doppiamente vittime, colpite nella dignità di madri, di
donne, costrette a subire ciò che non avrebbero mai nemmeno
immaginato: nessuna pietà per loro, nulla che permettesse loro di
considerarsi ancora, semplicemente, donne.
Eppure
quattro di loro rubarono dell'esplosivo per cercare di apportare
danni alla fabbrica della morte: il loro sacrificio, ancora una
volta, dimostrò quanta sia, da sempre e per sempre, la nostra forza,
portatrici per natura di vita.
Oggi chi visita
Auschwitz lo fa in silenzio, solo le guide parlano e oltre alla loro
voce si sente solo lo scalpiccio delle centinaia di scarpe che
calpestano il terreno, con lo stesso, inconfondibile rumore che fanno
i passi dietro ai carri funebri: quello è un immenso cimitero; lì,
ad ogni passo, sappiamo che in qualche modo si cammina sul dolore e
sulla memoria.
Ci sono stata, ironia
della sorte, un 8 marzo. Ricordo l'ingresso nel blocco 4: i gradini
sono consumati dai milioni di piedi che li hanno calpestati, dentro
si entra davvero nell'inferno e le lacrime cominciano a scorrere
senza freno.
Lo "Ziclon B"
uccideva gli esseri umani in circa 20 minuti, soffocandoli con il
cianuro. Soltanto ad Auschwitz fra il 1942 e il 1943 ne furono usati
20.000 kg, la ditta produttrice guadagnò 300.000 marchi dalla sua
vendita.
Per uccidere 1500
persone erano necessari 5-7 kg di veleno.
L'inferno più nero
appare con le tonnellate di capelli rasati ai cadaveri prima di
bruciarli, con le scarpe degli adulti e quelle dei bambini in mostra
dietro immense teche, le valigie coi nomi e le date di nascita, le
stoviglie portate da casa per cominciare una nuova vita.
Testimonianze di vite stroncate da un inganno immane, che non avrà
mai perdono.
Ogni buon padre ebreo
sa che deve far studiare il proprio figlio, sa che dalla Torah
imparerà i principi buoni per l'intera vita: migliaia e migliaia di
paia di occhiali aiutavano occhi che non hanno più potuto vedere.
La cenere ha
ricoperto per anni questo suolo, quello di Birkenau e di tutti gli
altri luoghi di sterminio, in uno stillicidio di lutti, di orrore.
Fra le lacrime e i pensieri del lavoro strenuo, ripagato con freddo e
fame, delle torture che portavano a morte sicura, quel giorno ho
chiesto alla guida come facesse a sopportare ogni giorno quel carico
di dolore.
La sua risposta è
stata lapidaria e mi ha fatto pensare e soffrire ancora di più: "E'
un privilegio".
Aveva ragione: è un
privilegio poter parlare, poter affermare, credere, volere che solo
attraverso la conoscenza di ciò che è stato abbiamo la speranza che
non accada mai più.
martedì 17 gennaio 2017
Anolini. Parma Mon Amour
Ero bambina e ogni volta la magia si ripeteva: giorni prima si cominciava a parlarne. Bisognava invitare qualcuno per cena, qualcuno così fortunato che avrebbe goduto di quel piatto così speciale.
Quando lo stracotto cominciava a sobbollire l'atmosfera si faceva eccitata. Il macellaio si era premurato di fornire quel pezzo giusto di spalla o sottospalla di vitello e, irrinunciabile, il cappone per il brodo, insieme all'osso giusto e al muscolo di manzo.
La casa profumava ormai di buono e, fra un pezzo della Traviata, uno del Trovatore e l'"Esultate!" di Otello lo stracotto diventava ripieno, messo a riposare un'intera notte, anche di più, al fresco.
Il giorno dopo il ripieno andava, finalmente, a riempire la sfoglia: lo stampino tornito a mano dal bisnonno Antonio svolgeva egregiamente il suo compito. Alla fine, mentre con allegria le note dei valzer di Strauss girovagavano per le stanze, la domanda, immutabile nel tempo era: quanti ne sono venuti? Si intendeva quanti anolini e mia mamma, stremata faceva l'annuncio: 327, 299.... A me, già un po' grandicella, il grandissimo onore di sigillarli uno ad uno appena usciti dalle mani di mamma, ben sapendo che quei pochi che si sarebbero rotti durante la cottura avrebbero contribuito a rendere ancora più succulento il brodo.
In sostanza una cerimonia lunga, laboriosa, affascinante, segno tangibile di un amore viscerale per la cucina, i suoi profumi, i suoi odori, le armonie, le rimembranze, le aspettative e i sapori rinnovati.
Ora lo stampino del bisnonno Antonio giace al sicuro in un cassetto: in pensione dopo tanti anni di onoratissimo servizio, sostituito da un bicchierino di vetro frutto di una ricerca certosina.
A me il compito di preservare e, se possibile, tramandare più che una ricetta un rito familiare.
Senza svelare tutti i segreti, in verità anche un po' lunghi da scrivere e difficili da rendere a parole, perché devono essere imparati con l'esperienza, eccovi le tappe dei miei anolini.
1. Il vitello, tagliato a grossi pezzi, entra nella pentola dove giace un fondo di olio extra vergine con un po' di burro. Appena inizia a rosolare entrano a fargli compagnia le verdure tagliate a pezzi (carota, sedano, cipolla, uno spicchio d'aglio che poi si toglierà), pochissimo peperoncino, chiodi di garofano (che poi toglieremo), sale e pepe. Una volta che hanno fatto amicizia fra loro si copre il tutto con brodo bollente e si incoperchia con l'amatissima fondina con la crepa sul fondo nella quale si versa il vino rosso (giovane e allegro) che percolerà durante la cottura. Dopo circa 3-4 ore si spegne il fuoco e si mette il tutto a riposare.
Giorno 2. Una volta acceso il fuoco sotto la pentola, appena lo stracotto riprende il bollore si versa una tazza di brodo bollente a cui si è aggiunto l'ultimo invitato, vale a dire, il concentrato di pomodoro. Tutto sobbollirà per qualche ora, sempre con la fondina in cui si rinnoverà l'aggiunta di vino.
Giorno 3. Ancora qualche ora e lo stracotto sarà davvero... stracotto. A questo punto è possibile passare alla preparazione del ripieno. Occorrono pane grattugiato, parmigiano, uovo e noce moscata.
Si versa il sugo dello stracotto bollente sul pane grattugiato e si schiaccia il tutto con la forchetta, così le verdure si scioglieranno nell'intingolo.
Quindi si aggiungono il parmigiano, l'uovo, la noce moscata, un po' di sale. La carne, ormai priva di ogni principio nutritivo, può essere tritata e aggiunta per rendere il ripieno più corposo. A questo punto si copre la terrina e la si mette a riposare un'altra notte.
Giorno 4. Il brodo di cappone è pronto, ora basta mettersi a comporre gli anolini. La sfoglia non va fatta con 1 uovo ogni 100 g di farina, ma un po' meno, altrimenti rischia di essere troppo preponderante. Fondamentale è aver portato il ripieno in cucina, al caldo, qualche ora prima e vaerrlo assaggiato per capire se manca qualcosa alla perfezione del gusto.
Pronti? Via! Un anolino dopo l'altro, sapientemente chiusi dall'aiutante (se c'è), si depositano sull'asse ricoperto da una tovaglia. Alla fine vanno coperti e fatti asciugare qualche ora e girati una volta in modo che l'asciugatura sia omogenea.
Gran finale. Quanti a testa? Dipende dall'appetito, ma almeno 25 a testa per riuscire a gustarli un po'.
Poi il lesso con le salse e i sottaceti.
La cuoca, stremata, è felice, gli ospiti in sollucchero, Traviata e Alfredo cantano: "Libiamo, nei lieti calici"...
W PARMA
Quando lo stracotto cominciava a sobbollire l'atmosfera si faceva eccitata. Il macellaio si era premurato di fornire quel pezzo giusto di spalla o sottospalla di vitello e, irrinunciabile, il cappone per il brodo, insieme all'osso giusto e al muscolo di manzo.
La casa profumava ormai di buono e, fra un pezzo della Traviata, uno del Trovatore e l'"Esultate!" di Otello lo stracotto diventava ripieno, messo a riposare un'intera notte, anche di più, al fresco.
Il giorno dopo il ripieno andava, finalmente, a riempire la sfoglia: lo stampino tornito a mano dal bisnonno Antonio svolgeva egregiamente il suo compito. Alla fine, mentre con allegria le note dei valzer di Strauss girovagavano per le stanze, la domanda, immutabile nel tempo era: quanti ne sono venuti? Si intendeva quanti anolini e mia mamma, stremata faceva l'annuncio: 327, 299.... A me, già un po' grandicella, il grandissimo onore di sigillarli uno ad uno appena usciti dalle mani di mamma, ben sapendo che quei pochi che si sarebbero rotti durante la cottura avrebbero contribuito a rendere ancora più succulento il brodo.
In sostanza una cerimonia lunga, laboriosa, affascinante, segno tangibile di un amore viscerale per la cucina, i suoi profumi, i suoi odori, le armonie, le rimembranze, le aspettative e i sapori rinnovati.
Ora lo stampino del bisnonno Antonio giace al sicuro in un cassetto: in pensione dopo tanti anni di onoratissimo servizio, sostituito da un bicchierino di vetro frutto di una ricerca certosina.
A me il compito di preservare e, se possibile, tramandare più che una ricetta un rito familiare.
Senza svelare tutti i segreti, in verità anche un po' lunghi da scrivere e difficili da rendere a parole, perché devono essere imparati con l'esperienza, eccovi le tappe dei miei anolini.

Giorno 2. Una volta acceso il fuoco sotto la pentola, appena lo stracotto riprende il bollore si versa una tazza di brodo bollente a cui si è aggiunto l'ultimo invitato, vale a dire, il concentrato di pomodoro. Tutto sobbollirà per qualche ora, sempre con la fondina in cui si rinnoverà l'aggiunta di vino.
Giorno 3. Ancora qualche ora e lo stracotto sarà davvero... stracotto. A questo punto è possibile passare alla preparazione del ripieno. Occorrono pane grattugiato, parmigiano, uovo e noce moscata.


Giorno 4. Il brodo di cappone è pronto, ora basta mettersi a comporre gli anolini. La sfoglia non va fatta con 1 uovo ogni 100 g di farina, ma un po' meno, altrimenti rischia di essere troppo preponderante. Fondamentale è aver portato il ripieno in cucina, al caldo, qualche ora prima e vaerrlo assaggiato per capire se manca qualcosa alla perfezione del gusto.
Pronti? Via! Un anolino dopo l'altro, sapientemente chiusi dall'aiutante (se c'è), si depositano sull'asse ricoperto da una tovaglia. Alla fine vanno coperti e fatti asciugare qualche ora e girati una volta in modo che l'asciugatura sia omogenea.
Gran finale. Quanti a testa? Dipende dall'appetito, ma almeno 25 a testa per riuscire a gustarli un po'.
Poi il lesso con le salse e i sottaceti.
La cuoca, stremata, è felice, gli ospiti in sollucchero, Traviata e Alfredo cantano: "Libiamo, nei lieti calici"...
W PARMA
domenica 8 gennaio 2017
Nino, le montagne e la libertà
Novantasei anni sono tanti e arrivarci con il sorriso sulle labbra e la voglia di sapere e fare ancora, un privilegio riservato a pochi.
Una generazione d'acciaio, quella di Nino De Marchi; erano tempi, quelli, in cui la selezione naturale e quella delle guerre, della difficoltà di vivere avevano un grande peso: sopravvivere e diventare grandi non era scontato.
Nino, classe 1920, pareva invincibile, ormai uno dei pochissimi rimasti di quelli nati in quegli anni, il patriarca dei partigiani, degli alpini e degli alpinisti di Conegliano e dell'intera Sinistra Piave.
Le ragioni dell'anagrafe, come le chiamava lui, sono però inesorabili e nessuno può sfuggirvi, nemmeno lui, sopravvissuto non solo alla guerra, ma ai tanti dolori che ne hanno segnato l'esistenza.
Aveva perduto due compagne di vita, un fratello e, nel 2009, Giuliano, il figlio amatissimo con lo stesso nome del fratello.
Distrutto dal dolore mi disse che avrebbe preferito di gran lunga essere stato lui a morire, ma che a consolarlo c'era il fatto che gli occhi di Giuliano avevano visto, come ultima immagine, le sue amate montagne. Aveva girato il mondo, scalato innumerevoli pareti ma a prenderselo era stato proprio l'Antelao, il re del Cadore, la montagna di casa. Era orgoglioso, Nino, di quel figlio medico e alpinista che portava il proprio sapere in luoghi meno fortunati del pianeta, alle genti di montagna che strappano ogni giorno la vita a un ambiente difficile, a condizioni estreme, a profondissime ingiustizie, rimanendo legati alla propria terra e ai suoi valori.
Per la propria terra, che si chiama anche Patria, per i propri valori si può e si deve lottare, senza sconti per sé e per gli altri.
Sempre, ai raduni partigiani, nelle celebrazioni del 25 aprile e del 4 novembre, Nino indossava i due simboli della Patria e dei valori: il cappello alpino e il fazzoletto dell'ANPI, inscindibilmente legati fra loro. Ufficiale degli alpini, dopo l'8 settembre del 1943 aveva detto basta e aveva saputo ribellarsi, come migliaia di altri giovani italiani, rifiutando l'idea di diventare davvero una propaggine della Germania nazista.

Aveva continuato ad amarla, la montagna, anche dopo, proprio perché ne aveva compreso l'essenza, cioè l'unicità di un ambiente che non fa sconti, che mette gli uomini nella condizione di comprendere cosa è davvero importante, che l'essenziale è migliore del superfluo e che, passata la guerra di Liberazione, ora poteva camminare e arrampicarsi in libertà.
Chiunque l'abbia conosciuto sa che la cifra caratteristica di Nino De Marchi era il sorriso: era un uomo buono, che non vuol dire debole. Il suo era il sorriso della consapevolezza, della coscienza a posto, di chi ne ha viste tante, di chi, soprattutto, vedeva la libertà come aggiunta e non sottrazione, come condivisione, partecipazione, educazione, non negazione, rancore, odio.
Era uno spirito indomito: appena poteva, con la voce ormai un po' arrochita dagli anni ma sempre tonante, prendeva in mano il microfono e pronunciava il suo discorso con sicurezza, parlando a braccio.
Sempre, alla fine, ed era una consuetudine, intonava la sua canzone preferita, "Bella ciao": l'ultimo verso lo cantava alzando il tono, con un groppo alla gola e le lacrime agli occhi. "Morto per la libertà".
Lo stesso groppo alla gola, le stesse lacrime agli occhi che abbiamo noi oggi piangendo un grande vecchio, un maestro, un uomo giusto. Nino è morto libero.
La prima fotografia è tratta dal blog https://ambulatoriodemarchi.wordpress.com/2014/06/05/nino-e-matteo/
giovedì 5 gennaio 2017
Miracolo Marras... a singhiozzo #Conegliano
Magicamente
la Befana porta a Conegliano l'ennesimo annuncio di miracolo: abbiamo
appreso stamattina dai giornali che il restauro della Marras si farà: il Comune fa riapparire nel bilancio di previsione una cifra apparsa e scomparsa più volte negli ultimi anni. In sostanza si
stanzieranno a bilancio 500mila (50mila in meno di quanto previsto
fino a ieri l'altro) euro necessari alla messa in sicurezza del tetto
dell'ex convento dei Domenicani, crollato in parte ormai moltissimi anni fa.
Per la sua trasformazione in biblioteca e centro culturale... beh, se andiamo avanti così forse i nostri nipoti ne vedranno la realizzazione.
È
un miracolo col singhiozzo: quei soldi appaiono, scompaiono,
riappaiono. E stranamente il miracolo della riapparizione avviene in
zona Cesarini, allo scadere dell'Amministrazione.
Con ogni evidenza sono iniziati i saldi delle promesse elettorali.
Iscriviti a:
Post (Atom)