Prologo
Tea
guardò la valigia sulla retina del bagagliaio senza sapere se il
peso più grande fosse quello del bagaglio o quello della sua
angoscia, della sua speranza, della stanchezza per una corsa che
durava da quasi trent'anni.
Non
si era mai arresa, non l'avrebbe fatto mai.
Il
treno sferragliava, pareva volesse attraversare d'un fiato quel lembo
nordorientale della penisola senza lasciarle il tempo per decidere
un'altra, definitiva marcia indietro.
Venezia
– Trieste Via Udine, questo l'itinerario dell'ultima tappa.
Tea
attraversò quella parte di Veneto in una bellissima mattina di sole:
i campi di granoturco si stendevano verdi e rigogliosi accanto a
vigneti pronti per dare i propri frutti, ovunque si notava il fervore
di un mondo in ricostruzione. Qua e là Tea vide gru in movimento,
alte abbastanza da oscurare, sfruttando gli inganni della
prospettiva, le montagne che si elevavano all'orizzonte.
Il
paesaggio l'aiutava a ricordare, a rientrare poco alla volta in un
clima, una visione, un modo di essere parte della terra che ci
ospita.
Non
era ancora il Carso, non vedeva ancora il suo mare, ma sapeva che i
suoi monti erano appena più in là, magari dopo il Piave li avrebbe
visti da lontano...
Accomodandosi
meglio sul sedile chiuse gli occhi e si fece cullare dai rumori
intorno a sé, si sentiva finalmente in pace, quasi serena.
Dopo
circa vent'anni stava davvero tornando a casa; dopo amori e
sofferenze, entusiasmo e disperazione avrebbe trovato ancora tante
incognite, una città che non avrebbe forse riconosciuto subito,
tanti di quelli che erano stati il suo mondo non c'erano più, ma
altri ne sarebbero venuti.
Dalla
sua terra d'origine aveva avuto il nome, il destino di quanti
nascevano minoranza in quel mondo di confine; aveva avuto il primo
amore, un figlio e un destino strano.
[...]Capitolo 1
Rincorrendo
distrattamente il tempo, illudendosi vanamente del suo possibile
fermarsi, o almeno rallentare, aveva subito una sorta di
estraniazione: seduta nel parco della Villa Comunale era stata
avvolta da un’onda di profumo intenso, prepotente, avvolgente,
forse un po’ dolce, perfetto contorno alle pigre ore di un primo
pomeriggio di quell’autunno incipiente. “Ah, ecco, questo è
profumo di…”, guardandosi intorno non seppe darsi alcuna risposta
e ancora una volta imprecò fra sé e sé contro la propria ignoranza
botanica, che le aveva spesso precluso tante chiacchiere innocenti e
rilassanti, durante la sua lunga vita. Dall’intrico verde la luce
filtrava, baluginando come certe idee improvvise, brillanti e
fuggevoli davanti a volontà deboli.
Glicini,
mughetti, gelsomini, ciclamini e pochi altri. Il suo olfatto,
finissimo, riusciva a dare un nome preciso solo a qualcuno dei tanti
aromi sprigionati dai fiori, compiendo i giusti collegamenti. E dire
che alla sua nascita la contessa, dopo averla guardata un po’,
aveva consigliato per lei il nome Tea. Per evitare problemi con il
parroco avevano poi aggiunto Maria. Aveva scoperto di chiamarsi Maria
Tea solo al momento del matrimonio: fino a quel giorno per tutti era
sempre stata semplicemente Tea, come la rosa.
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