Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

martedì 11 marzo 2014

Auschwitz. Cronaca da un pellegrinaggio

7 marzo 2014
Fase 1. Dopo la Carinzia con la sua neve la strada si snoda lungo la Stiria verso Vienna. Corre dritta dentro la Storia di un'Europa che sembra non trovare ancora una sua dimensione precisa.
E dire che basterebbe osservare ciò che ci sta intorno per capire quale sarebbe la via giusta: in parte l'abbiamo intrapresa ma pare che noi Europei abbiamo paura di metterci davvero insieme.
So che arriveremo in Polonia senza che nessuno ci chieda mai i documenti, senza barriere e dogane ed è una sensazione bellissima.
Nei due pullman partiti da Conegliano un piccolo pezzo di umanità ancora assonnata comincia a guardarsi intorno: l'andare è uguale da sempre, significa parlare, cantare magari, cercare l'amico per chiacchiere note e il compagno occasionale per scoprire qualcosa.
Io so come si chiama la nostra destinazione, conosco il perché del viaggio e l'angoscia convive con la consapevolezza  e il desiderio di condivisione.
Scoprirò poi che ora non so ancora bene dove sto andando, la tragica potenza dell'homo homini lupus non si è ancora dispiegata del tutto davanti ai miei occhi.
Quest'Austria è dolce, composta di colline, pascoli, fiumi, immense radure coltivate; casette come paesi di fiabe punteggiano di colore il verde imperante.
Perché un tempo qui divenne tutto nero, le camicie brune tolsero gioia e colore, perché l'Anschluss trasformò luoghi di fiaba in anticamera della tragedia?
Un cartello stradale indica Pinkafeld e mi viene subito in mente un bel prato ricoperto di fiori rosa. Questo Burgenland è un altro luogo di confine, di quelli contesi e strattonati da un Paese e dall'altro nell'eterno tentativo di impedire alla gente di vivere in pace.
In questa grande pianura tutto è uguale, e se il paesaggio influisce sugli esseri umani che ci vivono qui forse non si tratta di uguaglianza, mi convince di più l'idea di un fondamento di identità. O che si tratti di omologazione? Da italiana mi verrebbe da pensare ad una scarsità di fantasia oppure a ciò che accade quando ci sono grandi distanze fra comunità umane, chissà, forse poco alla volta ci si abitua all'isolamento e nasce la diffidenza.
Inutile dire che si passa per Vienna: non fosse per la sagoma dello stadio del Prater, il grande Danubio e l'immensa distesa degli "orti della città" ogni tangenziale del mondo ormai è uguale a tutte le altre ed i non-luoghi di Marc Augé sono realtà.
Sono le pale eoliche a modificare il paesaggio che segue: tante e di ogni dimensione, diversamente orientate per sfruttare ogni corrente d'aria.
E' la verde e dolce Moravia a darci il benvenuto in terra Ceca: i non luoghi tentano anche qui di farsi largo nei dintorni di Brno, ma resiste un paesaggio agricolo e silvestre i cui unici padroni paiono essere le centinaia di caprioli e daini che scorrazzano e giocano imperterriti, incuranti dei regimi, delle monete e delle frontiere mobili degli umani.
Lunga la Moravia, accompagna tutto il nostro pomeriggio, alternando i pascoli e immensi campi arati e seminati a vigneti arrampicati sulle colline che digradano lentamente dai Carpazi.
Pensando alla carta geografica mi viene da dire che questo è un viaggio tutto sul bordo dei Paesi, tutto dentro regioni d'Europa da sempre abituate a guardarsi non solo le spalle, ma anche i fianchi...
Sento ancora più forte il valore di questa costruzione politica così difficile, complessa, che rischia ancora una volta di naufragare sotto i flutti del populismo, della povertà e del conseguente tutti contro tutti. Passando per Austerlitz vien da pensare ai ripetuti tentativi di riunificazione, ai sogni imperiali naufragati per assenza di prospettiva vera.
La frontiera polacca giunge quasi col buio ed i primi zloti iniziano a passeggiare nel portafoglio.
Dopo 15 ore di pullman Cracovia ci accoglie coi suoi non-luoghi (vedi sopra) e, finalmente, approdiamo nell'hotel e nel tanto agognato ristorante tipico. 
Meglio mangiare e riposarci: ci guardiamo tutti negli occhi sapendo che domani sarà dura, anche se non sappiamo ancora quanto.

8 marzo 2014. Il pellegrinaggio
Auschwitz in Polonia non esiste più, se non come nome del Museo Statale. La Slesia, così ricca di foreste di faggi, abeti, betulle, ha il diritto di vivere, la Polonia ha diritto di parlare la propria lingua, di restituire ai contadini polacchi la terra difficile da coltivare, i piccoli cimiteri traboccanti di fiori di ogni colore, quelle casette dipinte di azzurro che richiamano antichi amori.
C'è il luogo, c'è il Museo, c'è la memoria di un orrore tremendo, c'è un cimitero senza lapidi, dove il fuoco ha trasformato in cenere le vite.
La moderna stazione di Oswiecim dona l'ultimo segno colorato prima del salto all'indietro nell'inferno. Tutto è silenzio nel pullman, anche i ragazzi tacciono, in attesa di arrivare.

L'ingresso è quello tipico di ogni museo affollato: gruppi, guide che si sbracciano, book shop, biglietterie. La prima differenza è la gigantesca batteria di cuffie destinate ai visitatori: nessuno deve parlare a voce alta in quel luogo, anche la nostra guida parla sottovoce in un piccolo microfono attaccato alla giacca.
Chiunque conosce quella maledetta scritta, Arbeit Macht Frei, lo scherno crudele di un inganno ordito a danno di esseri umani colpevoli solo di essere nati, di uomini e donne che volevano essere tali. Non numeri o burattini.
Fa impressione vederla in una giornata così: il sole pare davvero fuori luogo e penso a cosa potesse passare per la mente dei tanti disperati che per mesi, forse, non si accorgevano nemmeno del cambio delle stagioni. Lì, ad Auschwitz, la stagione era sempre e solo una: la morte. Una morte atroce, una morte fortemente voluta da aguzzini precisi e organizzati in ogni dettaglio: prima eliminarono i polacchi, rei di vivere in Polonia e di coltivare la loro terra; insieme a loro particolare cura fu posta nell'uccisione degli intellettuali e dei professori che, come è ovvio, imbracciano armi ben più pericolose dei cannoni: il sapere e soprattutto la sua trasmissione finiscono per creare cittadini consapevoli, curiosi di conoscere, desiderosi di contare.
Poi venne il momento della "soluzione finale", dello sterminio di massa, di un orrore che, a detta degli stessi nazisti, non sarebbe stato creduto: troppo folle, troppo crudele, troppo impensabile.
Eppure... abbiamo poi capito che la "banalità del male" può colpire sempre, l'ha fatto ancora, con la complicità di quell'altra caratteristica tutta umana, l'indifferenza.
Mentre Michele, la nostra meravigliosa guida spiega, racconta, oltre alla sua voce si sente solo lo scalpiccio delle centinaia di scarpe che calpestano il terreno, con lo stesso, inconfondibile rumore che fanno i passi dietro ai carri funebri: qui siamo in un immenso cimitero, qui, ad ogni passo, sappiamo che in qualche modo camminiamo sul dolore e sulla memoria. Scattiamo qualche foto ma abbassando subito dopo lo sguardo.
Vediamo gli occhi rossi di chi ha visto prima di noi il blocco 4: i gradini sono consumati dai milioni di piedi che li hanno calpestati, dentro si entra davvero nell'inferno e le lacrime cominciano a scorrere senza freno.
Lo "Ziclon B" uccideva gli esseri umani in circa 20 minuti, soffocandoli con il cianuro. Soltanto ad Auschwitz fra il 1942 e il 1943 ne furono usati 20.000 kg, la ditta produttrice guadagnò 300.000 marchi dalla sua vendita.
Per uccidere 1500 persone erano necessari 5-7 kg di veleno.
Quella della foto è una piccola parte dei fusti che lo contenevano.
Il nostro viaggio nell'inferno più nero inizia dalle tonnellate di capelli rasati ai cadaveri prima di bruciarli, dalle scarpe degli adulti e quelle dei bambini in mostra dietro immense teche, le valigie coi nomi e le date di nascita, le stoviglie portate da casa per cominciare una nuova vita. Testimonianze di vite stroncate da un inganno immane, che non avrà mai perdono.

Ogni buon padre ebreo sa che deve far studiare il proprio figlio, sa che dalla Torah imparerà i principi buoni per l'intera vita.
Migliaia e migliaia di paia di occhiali aiutavano occhi che non hanno più potuto vedere.





La cenere ha ricoperto per anni questo suolo, quello di Birkenau e di tutti gli altri luoghi di sterminio, in uno stillicidio di lutti, di orrore. La grande Vistola aveva le acque bianche, torbide di morte.
Fra le lacrime e i pensieri del lavoro strenuo, ripagato con freddo e fame, delle torture che portavano a morte sicura, ho chiesto alla nostra guida come facesse a sopportare ogni giorno quel carico di dolore.
La sua risposta è stata lapidaria e mi ha fatto pensare e soffrire ancora di più: "E' un privilegio".
Ha ragione Michele: poter raccontare, poter sensibilizzare, poter lottare ancora oggi contro l'indifferenza è un grande privilegio.

Birkenau. La cerimonia.
Ho visto tante volte il Sindaco con la fascia tricolore deporre una corona per i caduti.
Ho visto tante volte il gonfalone della città di Conegliano fare da sfondo ad una cerimonia, i ragazzi delle scuole ordinati in ascolto.
Oggi tutto questo si ripete, ma tutto, qui, è diverso.
Siamo più di cento, da Conegliano, venuti ancora una volta qui per ricordare tutti i deportati, con un pensiero ai "nostri" internati nei lager e nei campi di sterminio, ma sembriamo un piccolo drappello, perduti nell'immensità di un luogo che misura 140 ettari, costruito e pensato per essere una fabbrica di morte.
Entriamo a Birkenau già sconvolti, muti, in attesa di un'altra tappa di orrore.



Camminiamo lungo quella che era la "rampa" dove si decideva chi di qua e chi di là, chi nelle baracche e a lavorare per la Germania e chi direttamente alle camere a gas: gli anziani, i bambini troppo piccoli, tutti quelli che arrivavano troppo magri o che agli occhi dei "medici tedeschi" non erano abili al lavoro.
I ragazzi si offrivano volontari per manovrare un carro che portava il cibo nelle baracche delle donne: unica speranza per vedere, forse, la propria madre, pregando che non fosse fra i corpi morti portati fuori in braccio ogni mattina dalle altre detenute per far tornare la "contabilità" del campo.
Le SS hanno distrutto i due forni di Birkenau, ma non la memoria e le prove: di fianco alle rovine sorge il monumento che tutte le nazioni hanno eretto in memoria di quanto è accaduto.
Lì, sulla lapide scritta in italiano, la città di Conegliano ha lasciato anche quest'anno il segno della memoria condivisa, dell'impegno a lavorare perché non accada mai più, per sconfiggere, sempre, l'indifferenza di fronte alle tragedie.
Un 8 marzo diverso, difficile, a ricordare le donne doppiamente vittime, colpite nella dignità di madri, di donne, costrette a subire ciò che non avrebbero mai nemmeno immaginato: nessuna pietà per loro, nulla che permettesse loro di considerarsi ancora, semplicemente, donne.
Eppure quattro di loro rubarono dell'esplosivo per cercare di apportare danni alla fabbrica della morte: il loro sacrificio, ancora una volta, dimostrò quanta sia, da sempre e per sempre, la forza di noi donne, portatrici per natura di vita.
Primo Levi ha scritto che per descrivere ciò che è accaduto ad Auschwitz - Birkenau ed a Mauthausen, a Dachau, a Buchenwald e in tutti gli altri campi di sterminio sarebbe stato necessario inventare un nuovo linguaggio: le parole note non sono sufficienti.
Ciò che oggi possiamo fare è portare, accompagnare, invitare quante più persone possibile a visitare questo luogo: si entra nel dolore, lo si sente trasudare dalle baracche, dalla terra, lo si immagina, traslucido, nello stagno che contiene parte delle ceneri di tante, troppe vite annientate dalla lucida crudeltà.

Grazie a Carlo Feltre che mi ha dato alcune delle foto qui pubblicate.


3 commenti:

  1. Ricordo il mutare del paesaggio e anche delle costruzioni, il cercare di carpire qualcosa del modo di vivere delle persone da una finestra illuminata, da qualche passante con delle borse in mano...viaggiare in pullman ha un effetto un po' alienante...

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  2. Brava Isabella, hai dato voce attraverso le tue parole a ciò che ho provato anni fa visitando gli stessi luoghi. Ricordo l'ingresso ad Auschwitz in pieno sole, e il mio pensiero "Sole, nasconditi, la tua luce è inopportuna"... sicuramente per caso, pochi minuti dopo effettivamente il cielo si è ingrigito, la temperatura si è abbassata e piccolissime gocce di pioggia ci hanno accompagnato per tutta la visita.
    La tua descrizione coincide esattamente con i miei ricordi angosciati... il silenzio, il rumore dei passi, l'orrore.

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  3. Grazie Isabella. L'essenziale delle parole rende più di tante immagini e viene riassunto nella risposta della guida: è un privilegio. Si è un privilegio non dimenticare e non permettere di dimenticare.

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