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Conegliano, 26 gennaio 2014
Grazie
innanzi tutto al Sindaco e all'Amministrazione Comunale di
Conegliano, cui mi onoro di appartenere, a quanti lavorano nel e per
il Progetto Giovani della Città, grazie a voi tutti e soprattutto ai
ragazzi che hanno voluto ricordare, usando la potenza delle parole,
ciò
che l'uomo è riuscito a concepire contro se stesso.
Bravi
per la volontà, l'impegno, l'entusiasmo, la ricerca e soprattutto la
consapevolezza, come loro stessi hanno affermato, di essere forse
l'ultima generazione che ha avuto il privilegio di sentir raccontare
la Seconda Guerra Mondiale, la Resistenza, la prigionia, dalla viva
voce dei protagonisti.
Proprio
per questo hanno sentito forte il dovere di non disperdere quel
patrimonio ma di trasmetterlo subito agli altri, giovani e non.
Cari
ragazzi: sono convinta che tutti coloro i quali hanno varcato le
porte delle scuole per incontrarvi coltivavano proprio questa
speranza: la memoria deve vivere.
Spetta
a ciascuno di noi trovare il linguaggio e le modalità giusti.
Non
è facile, nel mare di citazioni, film, scritti e testimonianze sulla
Shoah e sui campi di sterminio e di concentramento scegliere cosa dire oggi: infinita la
sequenza del dolore e degli esempi.
Proverò quindi a dare solo qualche brevissimo spunto di riflessione.
Il
secolo appena trascorso, quel Novecento chiamato anche il “secolo
breve” è stato insieme sogno e abominio, altezza ideale e massacro
organizzato, sogno democratico, avvio e morte di dittature
sanguinarie. I due conflitti mondiali hanno procurato all''incirca 80
milioni di morti.
In
tutto questo mare di dolore e sangue noi oggi ricordiamo ciò che
difficilmente riusciremmo ad immaginare, a concepire se non avessimo
visto coi nostri occhi le immagini, non avessimo letto ed ascoltato
le testimonianze, ciò che le stesse vittime sopravvissute erano
convinte di non dover nemmeno raccontare: nessuno ci avrebbe creduto.
Perché
non si può credere che qualcuno decida di sterminare chi è diverso
per un qualsiasi motivo: colore della pelle, religione, opinione,
gusti sessuali, modo di vivere.
Eppure
è accaduto: lo sterminio nei campi di concentramento nazisti degli
ebrei, degli omosessuali, degli zingari, degli oppositori e di
chiunque potesse essere considerato diverso è una macchia
incancellabile nella storia dell’umanità, un’onta per la quale
la Germania di oggi, libera e democratica, ha chiesto scusa al mondo
intero.
Qualcuno
però, non dimentichiamolo mai, ancora oggi tenta di negare la cifra
e l’orrore della Shoah, con idee aberranti semina di nuovo l’odio,
il razzismo, l’idea della violenza e della guerra che vincono
contro la ragione, la pace, la democrazia. Contro costoro occorre
tenere alta la guardia e viva la memoria di ciò che è accaduto.
Dachau,
vicino a Monaco di Baviera, fu il primo esperimento di lager, aperto
nel 1933: Himmler dichiarò “di agire per la tranquillità del
popolo e secondo il suo desiderio”.
Da
lì in poi una sequenza di morte che parve non avere fine, la
costruzione di campi di concentramento e di sterminio che
inghiottirono le vite di milioni di esseri umani, in un crescendo di
orrore.
Noi
qui oggi siamo davanti alla stazione ferroviaria, un luogo di arrivi
e partenze, amato da chi sa che da qui, in un salto, può iniziare un
viaggio che lo porterà chissà dove. I binari corrono sempre
paralleli, il treno viaggia su di essi, ne segue le curvature ma non
può cambiare direzione a piacimento.
Non
potevano cambiare direzione i lunghi convogli carichi di persone
gettate nei carri bestiame senza diritto a mangiare, bere, lavarsi,
assistiti qualche volta dalla pietà di quanti sfidarono, anche a
Conegliano, i soldati tedeschi per dare un po' d'acqua o di pane a
quell'umanità sofferente.
Il
26 gennaio 1944 erano passati solo tre giorni dallo sbarco alleato di
Anzio e i tedeschi si stavano organizzando per impedire la risalita
di americani e inglesi lungo lo Stivale, nelle città italiane
nascevano i reparti speciali di polizia incaricati di sfruttare
delatori e spie per arrestare, torturare, uccidere, inviare nei
territori del Terzo Reich tanti sventurati.
Domani
ricorderemo la liberazione di Auschwitz: in molti si sono chiesti che
cosa impedì al popolo tedesco di ribellarsi a tanta violenza, come
fosse possibile non rendersi conto di quanto stava accadendo.
Dobbiamo
interrogare anche la nostra coscienza nazionale: dimentichi della
“banalità del male” non ci chiediamo magari perché (e
scelgo questo esempio per l'importanza del protagonista)
un uomo come Giuseppe Bottai, pure non antisemita, mise tanta
efficienza nell'applicazione delle leggi razziali nelle scuole
italiane: varate nell'estate del 1938, il ministro si impegnò al
massimo perché l'anno scolastico successivo iniziasse “in regola”,
cacciando professori e studenti italiani,
relegandoli nella paura e nella vergogna, marchiandoli per sempre ed
esponendoli, poi, alla furia nazista. Si vergognò, in seguito, visto
che non ebbe il coraggio di pubblicare, nel
suo “Vent'anni in un giorno”
ciò che disse il 6 ottobre di quell'anno: “Riammettendo gli ebrei
nell'insegnamento noi abbasseremmo il livello morale della scuola”.
Il male, però, era stato fatto.
Per
ogni ebreo che facevano prendere, i tedeschi davano tremila lire, che
all'epoca era una cifra. Cos'era la vita di altri uomini, di donne,
di bambini inermi di fronte al mito del denaro?
Gli
ebrei italiani erano e sono fra i più mescolati alla popolazione, da
sempre inseriti nel contesto sociale, non sono distinguibili dal
resto dei cittadini, avevano amici, colleghi, compagni di scuola,
qualcuno era anche sinceramente fascista, eppure diecimila di loro
furono caricati sui treni e mandati a morire, insieme agli
oppositori, agli zingari, agli omosessuali, uomini donne e bambini.
Quei
treni passavano anche di qui e arrivavano a destinazione con un
carico di dolore ancora piccolo di fronte a ciò che sarebbe
accaduto:
“Il
treno si ferma – io stavo sotto la grata, sotto l'apertura in alto
– guardo, e vedo una catasta di cadaveri, non so saranno stati...
sessanta, settanta cento non lo so: tutti nudi, una catasta, una
montagnola, proprio vicino ai binari. Io se non sono impazzito in
quel momento non impazzirò mai più... Poi si aprono le porte, si
scende”.
A
tutto il resto va aggiunto un capitolo speciale dedicato alle donne,
destinate
ad ulteriore dolore umiliazione svilimento: "Mi hanno spogliata
di tutto, completamente, di tutto di tutto di tutto. Con un
vestitaccio addosso e due scarpe che non erano mai uguali, sono
entrata nel campo, un inferno, in un mondo completamente nuovo".
"Eravamo nude,
depilate, rapate, ridotte a non esser più delle donne, piacenti o
appetibili. E questi SS che ci passavano vicino ci attraversavano con
lo sguardo come se non esistessimo: fossimo state un branco di pecore
o di mucche sarebbe stata la stessa cosa. La cosa mi ha umiliata
profondamente".
I
sopravvissuti iniziarono a raccontare dopo anni, qualcuno decenni,
alcuni non lo fecero mai. Nessuno di loro riuscì a dimenticare, gli
incubi li accompagnarono per tutta la vita.
Quella
vita che, nell'orrore, aveva perduto ogni valore.
Per
introdurre tutti voi all'ascolto di quanto i ragazzi di Int Art hanno
preparato ho scelto le parole con cui inizia
“La storia”, il romanzo più famoso di Elsa Morante:
“Dove
andiamo? Dove ci portano?
Al
paese di Pitchipoi.
Si
parte che è ancora buio, e ci s'arriva che già è buio
E'
il paese dei fumi e delle urla
Ma
perché le nostre madri ci hanno lasciato?
Chi
ci darà l'acqua per la morte?
Isabella Gianelloni