Il mio primo vero impatto con la politica avvenne in una stanza piena di fumo e di giovani che discutevano di argomenti per me incomprensibili, ma di sicuro fascino. Ero con Franca, la mia compagna di classe delle medie e in quegli ultimi mesi prima degli esami andavamo in esplorazione del mondo politico e sindacale.
Salii poi una seconda volta le scale di Via Accademia 2, dove all'ultimo piano c'era la sede del PCI: quel posto mi attraeva in modo irresistibile, ma stavolta Franca non era con me. Avrei voluto entrare nell'ufficio accanto alla sala della volta precedente, ma aveva ancora la porta chiusa: in pochi attimi mi avevano spiegato che lì dentro lavorava il segretario di zona del partito... e non era il caso di disturbarlo, se non per motivi serissimi.
Lì dentro c'era anche il telefono; nel salone il ciclostile cantava incessantemente, persone che non conoscevo arrivavano, entravano per un po' nell'ufficio, poi ritiravano lettere e volantini nel salone e sparivano.
Mi piaceva quel posto, soprattutto il ciclostile davanti al quale avrei passato più ore che sui libri di greco e latino. Mi piaceva la sensazione che in quelle stanze perennemente affumicate, con le immagini appese alle pareti e montagne di carta accatastata ovunque si stesse compiendo qualcosa di importante, che quelle persone fossero depositarie di verità assolute.
Le ho poi conosciute una ad una, ho condiviso con molti di loro un lungo pezzo di strada, ci ho litigato e discusso per ore ed ore, abbiamo riso tanto, cantato, manifestato, pianto.
Il capo incontrastato di tutti era comunque lui, il segretario di zona, Sergio Marchesin. Un po' confusamente avevo capito che lottava da decenni per i diritti dei lavoratori, che si era guadagnato "sul campo" le stellette di segretario, che era consigliere comunale rispettato da tutti, avversari compresi.
Non fu facile entrare in confidenza con lui: burbero dietro gli occhiali e i baffi ti guardava con aria indagatrice (secondo me un po' se la rideva) e se ne usciva con battute taglienti che non risparmiavano nessuno. Brontolava e si arrabbiava di continuo, ma mi fece capire che le cose vanno fatte bene, altrimenti è meglio lasciar perdere.
Intellettuale finissimo (ma questo l'ho scoperto dopo) perdonava gli strafalcioni agli operai e a quelli che non erano andati a scuola, ma era intollerante con quelli "studiati" e con noi giovani che, a dire il vero, volevamo bruciare un po' le tappe e scrivevamo quelli che chiamava "Obbrobri mal scritti e mal stampati".
Mi mise alla prova affidandomi un timbretto con su scritto "Stampe": centinaia di buste da affrancare con la tariffa ridotta a patto che ci fosse il timbro, centinaia di volantini da piegare e inserire, indirizzi da appiccicare. Il mio lavoro politico iniziò da lì e dai chilometri percorsi in quell'inizio d'estate del 1975, campagna elettorale per le amministrative.
Sarà stata anche l'amicizia profonda con la minore delle sue figlie, Allegra, sarà stata l'intercessione della sua amatissima Augusta, che invece guardava noi giovani con comprensione, ma poco alla volta il burbero Sergio si ammorbidì un pochino (poco, s'intende).
Si arrabbiava molto, ma sapeva ridere altrettanto, era esigente con gli altri ma prima di tutto con se stesso, ha dedicato la sua vita a una causa per la quale ha pagato e non ha certamente riempito il portafoglio, ha saputo coniugare la passione politica con l'arte, ha rappresentato, come molti altri della sua generazione, una politica svolta con passione, competenza, abnegazione assoluta. Funzionari pagati sempre troppo poco, disponibili dalla mattina alla sera tardi, sempre e ovunque ce ne fosse bisogno. Nostalgia? Sì, tanta.
Sempre in quell'anno, ormai 42 anni fa, i miei genitori presero due quadri ad una sua mostra di pittura.
Di uno Sergio non era soddisfatto e promise che un giorno sarebbe venuto a prenderselo per raddrizzare la strada dipinta, secondo lui troppo storta. Non l'ha mai fatto, e la strada del quadro è rimasta così com'era, come del resto il mondo che Sergio voleva più dritto, più giusto.
Caro Sergio, te ne sei andato a 90 anni e io mantengo con affetto quel quadro con la strada storta (che vedevi solo tu): per parafrasare Calvino non basta un cavaliere intero per fare intero il mondo.
La strada è storta, ma rispecchia questo mondo: tu lo avresti voluto migliore.
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