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Crocetta del Montello - Osservatorio del Re |
Dopo
giorni la pioggia era cessata, lasciando posto ad un’aria nuova,
che scendeva a valle lungo il letto del fiume.
In
tempi normali avrebbe trasportato l’odore dell’erba macerata
nell’acqua del Piave, il profumo del bosco d’autunno, l’aroma
fragrante delle castagne arrostite, l’odore invitante della legna
arsa nei focolari.
Per
quel popolo in armi fu il segnale: cominciava la grande corsa, la
rincorsa del nemico.
L’acqua,
tumultuosa e assordante nel suo scorrere impetuoso, rischiava di
travolgere da un momento all’altro i ponti gettati e con essi
quanti vi si trovavano sopra, era fredda, ma non c’era tempo per
rendersene conto, era pericolosa, ma nessuno sembrava essersene
accorto.
La
riva sinistra era finalmente lì, a portata di mano, sul greto
affioravano cadaveri con divise diverse, affiancati e accomunati da
un medesimo destino.
Bisognava,
come sempre, passare oltre, non era quello il tempo della pietà.
[...]
Corsero per ore, sparando e rincorrendo, rincorrendo e sparando. Quel
pezzo d’Italia era troppo simile a quello che avevano appena
lasciato. Ovunque trincee, fangose e marce come le loro, armi
abbandonate all’improvviso, uomini a terra morti o agonizzanti,
reticolati, resti di postazioni d’artiglieria ormai inutili,
dappertutto testimonianza di alberi sradicati, campi devastati,
ruderi di abitazioni, segni di incendi appiccati che nessuno aveva
tentato di spegnere.
Non
c’era tempo per rendersi conto della dolcezza di quei saliscendi
ora aspri ora lievi, scomparso quasi ogni segno della collina
coltivata, del lavoro instancabile che per secoli i contadini avevano
compiuto coltivando declivi dove era difficile imbrigliare l’acqua,
dove viti e granoturco soffrivano la sete.
Non
c’era più tempo per nulla: tutto un esercito rimasto fermo per
troppi mesi ora percorreva chilometri in poche ore, attraversava
fossi e campi, aie sconvolte e borghi ormai irriconoscibili.
La
cima di ogni altura era un osservatorio nemico, a volte abbandonato
repentinamente e a volte difeso strenuamente da chi era costretto da
qualche strano ordine a non accettare il proprio destino.
I
nomi prima solo sentiti e letti nelle mappe del tenente ora
divenivano realtà: villa Jacur, con quel nome un poco esotico, il
Colle della Guarda, San Daniele divennero luoghi veri.
[...]
Vincenzo e
Francesco, con il passo quasi sincronizzato procedevano vicini,
proteggendosi l’un l’altro, confortandosi nella stanchezza,
perfino felici del rinnovato movimento. Non più costretti nelle tane
come animali, con la marcia, l’attività veloce e guardinga,
ricordavano le giornate passate a caccia, la ricerca di qualche
pecora uscita dal gregge, l’esplorazione di territori ormai noti
con la sicurezza del ritorno.
Ora,
dopo mesi e mesi, quella parola cominciava ad avere un significato
più preciso, assumeva contorni più certi, sentivano che il momento
sarebbe arrivato presto.
“Caro
papà, noi abbiamo di sicuro vinto la guerra. Abbiamo passato il
Piave. Da questa parte del fiume quasi tutte le case sono distrutte.
Spero che fra poco tornerò a casa, anche se oggi sono triste perché
il signor tenente non è più con noi. Io sto bene e mando un bacio a
tutti. Vincenzo”.
[...]
Parola
importante, vittoria, che per tutti loro aveva un solo significato:
tornare a casa, per sempre.
Isabella Gianelloni
Tratto dal mio romanzo "Tre volte trenta", Piazza Editore
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