Dal mio romanzo "Tre volte trenta"
Giulia
scelse il punto dove il Piave incontra uno dei corsi d’acqua che
confluiscono nel suo letto vorticoso. Lasciarono l’automobile
vicino all’antica chiesa di Sant’Anna e si immersero in un verde
ormai chiazzato qua e là dai colori dell’autunno incipiente.
Passeggiando
protetti dalla natura, padrona assoluta di quel pezzetto di Terra,
non sembrò per niente strano pensare che gli antichi romani avessero
lasciato anche lì il segno del loro passaggio, su pietre che hanno
sopportato pazientemente lo scorrere dei secoli, la bizzarria e a
volte la vera e propria follia degli uomini.
Tenendosi
per mano si lasciarono inghiottire in una vera e propria galleria di
pioppi, ontani, salici e robinie che si abbeveravano placidi
nell’acqua del fiume, rassegnato al suo prossimo gettarsi fra le
braccia capienti del Piave.
Lo
incontrarono, alla fine, più turbolento, sicuro di sé, con le
piccole cascate e i vortici tra una roccia e l’altra. Attraverso
qualche fronda, oltre la riva destra, intravidero i contrafforti del
Montello e si fermarono a contemplare, ancora una volta, lo scarto e
insieme l’unione fra il passato ed il presente.
Sapevano
ambedue che novant’anni prima tutta quella vegetazione non c’era,
spazzata via dalle necessità della guerra, ma Leandro insistette
nell’immaginare, in barba al realismo, il tenente di suo nonno
vegliato dai rami di uno di quei salici sulla riva del fiume, oppure
più in là, protetto da una delle querce che ostentano la propria
forza.
Stettero
un po’ a sedere sulla spalla di un ponte romano, segno di una delle
tante vie costruite per unire popoli e culture, ascoltando il rumore
dell’acqua, più forte nel mezzo del fiume, più quieto nel
lievissimo sciabordio dove arrivava a lambire la riva. Dietro di loro
il sottobosco profumato, sopra, sempre alberi e il sole che,
filtrando, dava ancora calore all’atmosfera.
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