Tea pagò il conto e si avviò verso Ponte Vecchio, pensando fra sé al Pont Neuf di Parigi e alla Senna. Sorrise osservando gli innamorati che si attardavano per non spezzare l’incantesimo, abbracciati e silenziosi davanti allo scorrere del fiume. Non era quello, per loro, il tempo del dolore.
Passeggiando sola in quella serata fiorentina continuò a ripensare a quell’amore parigino, a quel periodo incredibile della sua vita, quando tutto pareva possibile, quando quella loro vita (la sua e di tutti gli esuli antifascisti) aveva il sapore e il profumo di una condizione disperata e meravigliosa allo stesso tempo, fuori dalla realtà e libera dalle incombenze quotidiane, lontana dagli affetti di casa ma anche dai lacci spesso soffocanti di una società vecchia, polverosa, bisognosa di una ventata di aria nuova.
Quella che aveva vissuto in prima persona, lei piccola slovena proveniente dai quartieri popolari di Trieste, era un’esperienza che nessuno avrebbe mai osato immaginare.
Nascere sulla strada che da Trieste porta all’Istria portava forse con sé l’istinto di non limitarsi al proprio ristretto orizzonte, sentendo imprescindibile il desiderio di attraversare comunque i confini. Lei fin da piccola amava arrampicarsi in cima alle alture che dominano la città, si sorprendeva a fantasticare chissà che cosa osservando il mare, adorava anche la bora quando la sorprendeva coi suoi soffi imperiosi, studiava con aria curiosa tutto ciò che la circondava.
Ripensandoci ora le trecce tanto odiate le avevano sempre permesso di avere lo sguardo libero.
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