Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

venerdì 6 maggio 2016

#6maggio1976 Quarant'anni fa

Monte Plauris. Foto Pierluigi Donadon
Erano stagioni "calde" quelle di qualche decennio fa; anche la periferia viveva le tensioni, sia pure smorzate, delle grandi città.
E così il rotolare di una bottiglia e quel boato improvviso di fianco alla piazza cancellarono per un istante la strana sensazione di caldo che saliva dal terreno.
Sotto il lampione che illumina Piazza Cima dalla parte del Municipio stavamo parlando dell'iniziativa politica in atto nella Sala Consiliare, indugiando all'aperto in una bella serata di primavera.
Quel boato improvviso ci fece schizzare su per le grandi scale del Comune, suggestionati dall'idea che si trattasse di una bomba, di un attentato, di una provocazione.
L'incoscienza di chi non aveva mai provato la forza tremenda della terra ci fece andare controcorrente: salivamo incontro a chi scendeva terrorizzato, urlando, mentre le scale si spostavano ondeggiando staccandosi dalla parete.
Dopo, solo qualche istante dopo, comprendemmo ciò che era successo e la parola "terremoto", fino ad allora sentita solo a scuola nell'ora di scienze, si vestì di realtà, iniziò lo straziante conteggio dei morti e dei danni.
Dopo, qualche ora dopo, in un mondo che non conosceva i social network, di bocca in bocca corsero quei nomi, noti perché vicini, perché frequentati, perché sede della naja dei tanti alpini di casa nostra.
La spaventosa tragedia che aveva colpito il Friuli divenne patrimonio comune e mentre tanti giovani partivano spontaneamente per portare aiuto, chi non poté partire, come me nemmeno quindicenne, si accorse che quella terra era davvero vicina. Buia, Gemona, Venzone, Trasaghis, Osoppo e tutti gli altri paesi distrutti o colpiti divennero per tutti noi luoghi del cuore.
Passandoci, mesi dopo, erano ancora muti, sconvolti, con le ferite aperte, con i container e macerie ancora visibili.
Tre anni dopo, in una terra che era stata fino a quel momento di emigrazione, nei piccolissimi paesi arrampicati su montagne aspre e difficili, lontani dalle grandi vie di comunicazione, vedevo coi miei occhi il ritorno alle radici, scoprivo che era in pieno rigoglio il risveglio del Friuli, ammiravo la caparbietà della sua gente che stava tornando per ricostruire tutto "dov'era e com'era": case, stalle, chiese.
Oggi lo spettacolo di Gemona e Venzone ricostruite, l'emozione di fronte alle pietre delle mura pazientemente numerate per essere rimesse al loro posto, la sapienza di una scuola di restauro che, dalla splendida Villa Manin di Passariano, riuscì a ridare volti e dignità all'arte ferita, insegnano come l'amore condiviso per la propria terra, la volontà ferrea di ricominciare e un solido controllo sociale possono compiere non miracoli, ma atti di profondissima civiltà.
Poi, dopo un altro po', comparvero, in ogni città, adesivi o volantini con una scritta che ancora oggi emoziona: El Friul al ringrasie e nol dismentée. (Il Friuli ringrazia e non dimentica)
Ho pensato spesso a quelle parole, specie tutte le numerose volte in cui ho messo piede nella Regione che dista davvero poco da qui.
Il Friuli non ha ancora dimenticato e oggi, in questo quarantesimo anniversario dalla tragedia, mostra con orgoglio ciò che è riuscito a fare.
È l'Italia, invece, che troppo spesso ha dimenticato, nelle tragedie che purtroppo sono seguite, il Friuli, l'esempio di una piccola-grande Regione e di un popolo a volte magari un po' spigoloso, ma caparbio, capace e pieno di amore per la propria terra.

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