[...] Quando
poi si è sviluppata la Zoppas è stato un vero tormento. Quasi tutti
gli operai erano ex mezzadri, i famosi metal-mezzadri, e ciò
provocava non pochi problemi. Il contadino, per esempio, era abituato
a vivere all’aria aperta e faceva fatica ad abituarsi al lavoro
dentro la fabbrica, fermo sempre sullo stesso posto per ore. Senza
parlare poi delle condizioni di lavoro. Inizialmente mancavano i
servizi igienici. Quando si indiceva uno sciopero, soprattutto le
donne andavano a lavorare, perché così veniva loro detto da parte
dell’Azione Cattolica. Possiamo immaginare le parolacce che
sentivano, invece, dai loro colleghi maschi. A questo proposito
ricevetti una lettera di protesta da parte del Monsignore, e così
proprio io, cattolico, fui costretto ad entrare in polemica con le
gerarchie ecclesiastiche. Scrissi al vescovo che la prima cosa che un
cristiano deve imparare è la solidarietà, ed è questo il primo
insegnamento che va dato a chi non l’ha ancora ricevuto.
Avevano
costruito i capannoni nuovi nell’ambito della fonderia, ed in
estate si vivevano condizioni impossibili. Avevano messo delle donne
in fonderia, una cosa inaudita. Un giorno una ragazza si sentì male
e svenne. Nessuno sapeva cosa fare, dove portarla, perché non c’era
nemmeno un gabinetto. In fondo al cortile c’era un vecchio fienile
e fu messa lì. È un episodio che parla da solo e spiega quali
fossero, spesso, le condizioni di lavoro di quegli anni. Era
difficile, molto difficile parlare di diritti, di rapporti corretti
fra le parti sociali. La gente aveva bisogno di lavoro e tutti
pensavano a lavorare, ingrandirsi, costruire.
Come
ho già detto prima, almeno prima del grande sviluppo della Zoppas,
molta dell’occupazione nelle industrie più grandi era femminile.
Molti degli uomini erano dediti al lavoro dei campi, spesso in
condizioni ancora assai arretrate, oppure emigravano, all’estero o
anche in Lombardia, in Piemonte. Le famiglie contadine si trovavano
ad avere manodopera in eccesso, e ciò frenava anche lo sviluppo
stesso dell’agricoltura. Ogni anno, nel mio resoconto sullo stato
della provincia sottolineavo il problema della sottoccupazione
contadina. Solo alla metà degli anni Cinquanta riuscimmo a mettere
in riga la Provincia e le amministrazioni comunali (anche se erano
quasi tutte in mano alla DC, il mio partito), quando, di concerto con
la Camera di Commercio e la Cassa di Risparmio, si istituì un
concerto di forze per offrire agevolazioni alle industrie attraverso
i Comuni (concessione dei terreni, ecc.) e garantire a chi dava
occupazione di poter ottenere dalla Cassa di Risparmio mutui a tassi
agevolati.
In
quell’epoca partirono anche i cosiddetti “piani verdi” per i
contadini: lo Stato dava il denaro per riscattare la terra all’1,5%,
e lo stesso tasso valeva per la meccanizzazione e le case contadine.
Quel denaro fu importante come volano per lo sviluppo.
Il
momento di passaggio fra il “rimettere a posto” i danni della
guerra e la partenza vera e propria dello sviluppo è stato circa a
metà degli anni Cinquanta, con in mezzo il periodo delle
riconversioni industriali dopo l’economia di guerra. Si trattava di
acquistare macchinari nuovi, e lo stesso Cotonificio di Conegliano ne
è un esempio significativo. Un fattore del quale è necessario
tenere conto è che la provincia di Treviso, partendo da una
situazione di grande povertà, poteva proporre sul mercato prezzi più
allettanti. Fra un paio di calze prodotte a Milano ed uno a
Conegliano era più conveniente l’acquisto di queste ultime. In
provincia c’erano tre calzifici, a Conegliano, a Valdobbiadene ed a
Caerano San Marco. È anche vero che qui giunse anche molta gente da
fuori, industriali provenienti dalla Lombardia, per esempio. Ricordo
che io stesso avevo non dico la processione, ma parecchi che venivano
ad interpellarmi sulla convenienza o meno di iniziare attività
industriali in certe zone.
Alla
luce
di
quanto
ho
detto
e
di
quanto
ho
potuto
constatare
in
tutti
questi
anni,
se
è
vero
che
economicamente
Conegliano
è
diventata
una
potenza,
secondo
me
lo
sviluppo
è
stato
troppo
improvviso
ed
intenso,
ed
in
qualche
caso
ha
ubriacato
la
gente.
Il
benessere
così
improvviso
non
ha
svegliato
le
persone:
il
bisogno
aguzza
l’ingegno,
ma
qui
troppi
sono
cresciuti
nella
bambagia
e,
per
così
dire,
se
la
godono…”.1
(On. Agostino Pavan)
Intervista
riportata
in:
Isabella
Gianelloni
e
Lucia
Da
Re,
“Il
colle
e
il
piano”,
Piazza
Editore,
2007
1
Intervista di Isabella Gianelloni all’on. Agostino Pavan, 13 maggio 2005
Nessun commento:
Posta un commento