Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

domenica 19 maggio 2013

Cara collega... Riflessioni su una supplenza

Cara collega, ti affido i tuoi ragazzi, quelle due classi con le quali ho trascorso le ultime settimane. Giornate complesse, da lasciarti senza fiato ed al minimo dell'energia: chi sono questi quasi adolescenti non più bambini non ancora grandi? Cosa si aspettano da un adulto che si inserisce nel loro gruppo? Che cosa temono, che cosa immaginano, cosa sono quei luccichii dei loro occhi, a volte sinistri a volte smarriti, allegri, preoccupati, molto spesso annoiati?
Se ripenso a quando ero studentessa so esattamente che gli adulti in generale, insegnanti di ruolo, supplenti soprattutto, vengono sottoposti ad un attento esame che in pochi minuti ne stabilisce il valore intrinseco, le capacità, l'autorevolezza. Ed il giudizio è inappellabile.
Ci ho riflettuto anche stavolta, sperando, per così dire, di "cavarmela" alla meno peggio.
Prima di entrare nelle classi che ho avuto in consegna quest'anno sapevo, per letture, discorsi, confronti con altri, che la scuola italiana versa in condizioni difficili e che la scuola media inferiore, nella fattispecie, soffre di un pluridecennale abbandono da parte di chi dovrebbe lavorare con il solo obiettivo di rendere l'istituzione - scuola il baluardo, il fondamento della società.
Non ero ancora consapevole, però, di quale fosse in realtà la gravità della situazione.
Per carità di patria, cara collega, non mi soffermo sullo stato delle strutture murarie e materiali delle scuole italiane, passo ad altro, a ciò che a noi compete di più.
Una società sbrindellata, permeata di false promesse di felicità ed improbabili mezzi per raggiungerla, incapace di guardarsi indietro e perciò ancora meno di guardare avanti pare abbia abdicato rinunciando alla trasmissione dei saperi, dei valori fondanti del rispetto e della solidarietà, anche della disciplina e dell'educazione.
O meglio, forse, nell'insieme si è creata una sorta di dualismo per cui la famiglia (o chi per essa), troppo spesso occupata ad inseguire ciò che può ed incline a dire solo "sì" (i no costano fatica, vanno spiegati, discussi, confrontati e poi necessitano di coerenza, esempio e perseveranza), delega alla scuola tutto il resto, supponendo magari che dei semplici "no", dei richiami alle regole della civile convivenza, al senso del dovere ed all'importanza del sapere siano inutile vecchiume, fastidiosi intermezzi in un mare di "machissenefrega", noiose parentesi nell'allegra marcia verso un domani in cui magicamente i ragazzi diverranno adulti furbi e consapevoli.
Noi sappiamo che non sarà così. Molti ragazzi sanno che non sarà così. Vivono però la schizofrenia di troppi esempi agli antipodi, trovano a volte anche a scuola insegnanti che si accontentano di aspettare che il tempo passi e dicono troppi sì.
Posso dirlo, anche se sottovoce? Lo dico perché lo penso: c'è anche tanta ignoranza, di quella spicciola, fuori dalla scuola quando non ci si preoccupa di insegnare ai ragazzi ad osservare il mondo con curiosità, a chiedere e pretendere dai genitori che tramandino loro ciò che sanno; dentro la scuola quando si mascherano certe incompetenze con una presuntà "bontà" nella valutazione.
Questi ultimi, però, sono casi limite, forse più estesa è la stanchezza, la rinuncia ad una battaglia che pare perduta in partenza.
Non ho mai sostenuto, al liceo e all'università, esami di pedagogia e psicologia; mi rendo conto quindi di essere molto ignorante in materia, ma sono certa che nemmeno i miei migliori insegnanti avessero quel tipo di competenze. Li sorreggeva, però, una grandissima conoscenza delle loro materie, un amore per la cultura che traspariva ad ogni lezione, instancabilmente: maestri più che professori.
Sulla mia strada, in questa esperienza di "prof", ho incontrato tanti colleghi bravi e competenti, impegnati e spesso disperati per non poter fornire risposte adeguate ai ragazzi in difficoltà (tanti, tantissimi e per mille motivi) e nemmeno a quelli bravi, vogliosi di imparare, di carpire agli insegnanti il mistero della conoscenza.
Impacciati nel trovarsi imbrigliati in sistemi burocraticamente assurdi e complicati, buoni per le statistiche ma non certo per educare i giovani ad essere persone.
Persone che pensano, riflettono, usano le proprie conoscenze per un'analisi critica della realtà: tutto questo non c'è nelle astruse griglie di valutazione, nelle definizioni inventate per giudicare un tema o un'interrogazione da gente che forse non è mai entrata in una classe.
La creatività e la fantasia dovrebbero essere premiate, non imbrigliate; il saper ragionare criticamente, la capacità di esprimere idee e concetti coerenti dovrebbero essere la "missione" della scuola.
Per tutto questo non sono necessari i tablet, forse serve molto più amore. Per ciò che si sa, con la consapevolezza che la cultura serve per essere messa a disposizione degli altri.
Per me, aver scoperto un piccolo poeta macedone, una classe con cinque musulmani felici di discutere delle affinità e delle differenze culturali che si chiedono perché mai nessuno in tre anni ha chiesto loro di parlarne, aver parlato con alcuni che esprimevano gratitudine per ciò che ero riuscita a trasmettere, spiegare, chiarire, vale quasi quanto la laurea e gli anni passati sui libri.
Vuol dire che, forse, è servito a qualcosa, che studiare ed imparare non è inutile.
Buon lavoro a te e a tutti gli altri colleghi.
Isabella Gianelloni

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