Il colle è la mia prospettiva. Le colline non sono mai le stesse, come le attività di chi studia e scrive. Dall'alto lo sguardo spazia e aiuta la fantasia, la ricerca; guardare aiuta a pensare, a mettere insieme le idee, quelle che fanno scrivere per sé o per far leggere agli altri ciò che si produce.

martedì 24 ottobre 2017

1917-2017 Cent'anni fa pioveva

Cent'anni fa pioveva, pioveva da giorni; la grande strada "Napoleonica" era percorsa ormai da due anni e mezzo dai mezzi pesanti dell'esercito ma, per un cinico scherzo del destino, quell'anno il raccolto era stato abbondante: cantine e granai erano pieni e l'inverno incipiente non faceva paura...
Cavalli, le prime automobili degli ufficiali, truppe che sbarcavano dalle tradotte nella stazione vecchia di pochi decenni: un traffico su e giù da quel Friuli destinato ad essere da sempre confine di qualcosa, si trattasse dell'Impero Romano, di quello Sacro e Romano, della Serenissima e poi giù di corsa lungo il XIX secolo, tutto sommato non ancora finito.
Un secolo altalenante di speranze e disillusioni amare, per tutto il nordest.
Noi, qui, quasi dimentichi dello strazio delle guerre napoleoniche, ci eravamo adagiati (si fa per dire) su uno sviluppo che pareva sicuro; perfino la guerra aveva portato speranze di produzione (si sa, i soldati hanno bisogno di cibo, divise, carburante...).
Nelle cronache ufficiali i lutti avevano poco spazio, soppiantati dai commerci dovuti alla "grande fortuna" di essere retrovia, luogo di riposo per fanti e alpini, centro provvisto di caste e bene ordinate case del soldato, di sconvenienti ma necessarie case di tolleranza (ufficialmente tanti condannavano, ufficiosamente i più sorridevano e approvavano, senza alcun pensiero rivolto alla carne e allo spirito di quelle donne, ma questo è un'altra faccenda), di ospedali che accoglievano i resti della carne da macello mandata all'assalto.
Le carte depositate negli archivi raccontano però la disperazione delle famiglie, ad ogni latitudine del Paese, il senso di abbandono e smarrimento quando i telegrammi di servizio annunciavano un ferito, un morto o un disperso, la paura del futuro.
Tutto, però, rimaneva confinato in luoghi lontani, soprattutto nell'immaginario di quanti erano poveri in fatto di geografia: Carso, Isonzo, Pasubio, Marmolada erano lontani anche per chi viveva in queste nostre contrade. Fateci caso: oggi in località Gai, là dove inizia la Statale di Alemagna, quel cartello che indica "Cortina 100 km" ci parla della perla delle Dolomiti vicina a noi, allora 100 km assumevano tutt'altro significato.
Quel 24 ottobre di un secolo fa pioveva e insieme all'acqua, al freddo e al fango tutto si capovolse: come un'ondata di piena la notizia raggiunse in poco tempo le retrovie che di lì a pochi giorni si trasformarono in terre occupate o in prima linea.
Di Caporetto gli storici hanno conteggiato tutto, noi oggi sappiamo il numero dei cannoni, delle armate e dei battaglioni, dei morti, dei feriti, dei prigionieri. Conosciamo la triste sorte dei profughi friulani e veneti, qualche volta anche quante uova gli occupanti prelevarono, durante l'anno di occupazione, dai pollai della gente rimasta.
Nessuno, però, potrà mai stilare l'inventario dello sgomento, dell'ennesimo rovesciamento di vite già legate a un sottilissimo filo, del precipizio nella miseria e nell'inedia di quanti, già poveri, si ritrovarono disperati, dello smarrimento di chi aveva un negozio, una bottega, una campagna, una fabbrica e si ritrovò a mendicare un lavoro purchessia, ovunque fosse, dell'ennesimo sacrificio di terre situate per vocazione al confine di qualcosa.
Difficile anche solo immaginare cosa passasse per la mente dei soldati originari di queste terre che temettero non solo di perdere una battaglia o la guerra, ma ciò che restava della propria famiglia, della propria casa o che, dalle linee al di là della Piave, videro per mesi la distruzione dei campanili dei propri paesi.
In tutto quello sconquasso, lontano dalla retorica qualcuno fu anche felice dell'arrivo dei tedeschi, perché da sempre la speranza di chi sta sotto è che il nuovo capo porti maggiore giustizia, ma la storia ci insegna che non è mai così.
Andiamo allora a Caporetto, in quello che ho altre volte definito un "museo onesto": lontano da ogni retorica e da ogni tentazione nazionalistica, ci racconta invece l'altalenarsi, sotto quelle montagne, di dominazioni, padroni, occupanti, di cambiamenti di nome e di lingua, di religioni e preghiere. Ci descrive lo strazio di una battaglia che ebbe pochi tratti dello scontro consueto fra eserciti, che cambiò la concezione della guerra, che consegnò per sempre alla storia un mucchietto di case fra le montagne, ricco di prati che lambiscono le rive dell'Isonzo, fiume bizzarro, impetuoso e spumeggiante di un verde-azzurro unico e commovente, depositario di una memoria antica.
Attendiamo che il Tigri e l'Eufrate si riprendano il ruolo di fiumi di civiltà, mandiamo la memoria di Caporetto in quelle terre, sperando che presto vi si possa costruire un altro museo, altrettanto onesto e capace di servire da esempio.
Questo, però, è un altro discorso...

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